Dal «De vita inclusarum» di Dionigi il Certosino

La Vita delle recluse è una lettura un po’ faticosa, per quanto breve, se il suo stesso curatore, Louis-Albert Lassus, ammette che nella «produzione impressionante [di Dionigi; 42 volumi a stampa] troviamo talvolta lunghe pagine fastidiose da quanto si ripeta, da quanto si preoccupi di appoggiare le sue parole ai testi ispirati, da quanto voglia “dire tutto”». D’altra parte la brillantezza non è proprio nelle intenzioni di questo opuscolo, scritto intorno al 1450, presso la piccola certosa di Ruremonde, dove Dionigi si trovava da quasi venticinque anni e dove resterà per altri venti, fino alla morte.

Il Dottor Estatico, come più tardi sarà conosciuto, e che di sé diceva: «Testa di ferro e stomaco d’ottone», si rivolge a un’«anziana venerabile» che gli aveva richiesto qualche parola di consiglio sulla vita reclusa, convinto di poter essere d’aiuto, non soltanto alla sua anonima corrispondente, ma anche «alle giovani che intraprendono questa grande avventura». Il discorso di Dionigi è metodico, piano, fitto di accensioni mistiche e di consigli pratici, tipici di questa letteratura. Sono formule tramandate e lungamente meditate. Le parti che ho sottolineato di più sono quelle dedicate alla motivazione di questa «avventura», che è una sola: l’amore, esaltato dalla «contemplazione autentica, eccellente e continua di Dio, per quanto sia possibile quaggiù». La centralità di questo amore – che è presente e in rappresentanza di tutta l’umanità – sollecita a Dionigi alcune immagini interessanti.

Come quando il certosino invita la reclusa a «conformarsi» al Cristo, e commenta: «Mai la sposa abbraccerà lo sposo con più amore di quanto abbia fatto il Cristo quando ha abbracciato, per lei, la colonna ove è stato flagellato, o quando si è steso sulla croce cui è stato appeso e su cui è morto» (art. III). Oppura quando contesta l’obiezione che non si possa essere uniti soltanto a Dio: «Non vediamo forse certuni tutti presi dall’amore terreno pensare sempre alla persona amata, in ogni luogo, in ogni momento, durante qualsiasi attività?» E dunque «allo stesso modo in cui gli amanti di questo mondo si compiacciono di occupazioni e conversazioni frivole, senza esserne disgustati, anzi con il cuore colmo di gioia poiché sono sorretti dal loro amore, così la reclusa…» (art. VIII).

È proprio il riferimento alle «forme umane» dell’amore che mi ha spinto a mettere qualche punto di domanda in margine soprattutto all’articolo XVII, dedicato espressamente all’amore di Dio.

Dionigi afferma che quattro sono i motivi per i quali bisogna amare Dio. Il primo è perché Dio è «infinitamente migliore di tutte le creature prese nel loro insieme e di ciascuna di esse»: già, ma tra esseri umani non si ama la perfezione… In secondo luogo «Dio dev’esser l’oggetto del nostro amore perché Lui per primo ci ha amati e ci ama»:  be’, non si ama perché si è amati… Terzo, «bisogna amare Dio a causa di tutti i benefici che elargisce, generali e particolari, materiali e spirituali, nell’ordine della natura e nell’ordine della grazia»: qui il discorso è pressoché millenario… Infine, «dobbiamo amare Dio per la promessa che ci ha fatto di donarci la Sua gloria»: eh, le promesse…

Perfezione, ordine di precedenza, benefici e promesse: uhm, le cose «quaggiù» vanno un po’ diversamente.

Denys le Chartreux, Livre de vie des recluses. De vita inclusarum, introduction, traduction et notes par Louis-Albert Lassus, o.p., Beauchesne 2003 («Ouvrage publié avec l’aval du Révérend Père Prieur de la Grande-Chartreuse»).

4 commenti

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4 risposte a “Dal «De vita inclusarum» di Dionigi il Certosino

  1. Ancora oggi sappiamo relativamente poco delle recluse del Medioevo. Di recente, la storica Anneke Mulder-Bakker ha dedicato loro un bellissimo lavoro. Secondo me non si può capire il pensiero di Santa Chiara d’Assisi se non si ha ben chiaro chi fossero le recluse e quale fosse la loro importanza.

  2. MrPotts

    Grazie. Vedrò di recuperarli.

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