«La ragione per cui noi monaci siamo monaci» (Giorgio Boatti, Sulle strade del silenzio)

Giorgio Boatti ha fatto una cosa che non credo farò mai: è andato a vedere. Fedele, probabilmente, anche a una formazione di giornalista di indagine e inchiesta, ha compiuto un viaggio per una dozzina di monasteri italiani, senza trascurarne gli «spaesati dintorni», come recita il sottotitolo del volume che racconta di tale viaggio. Lo spunto per la prolungata ricognizione, che inizia con l’abbazia di Finalpia (in provincia di Savona) e si conclude al Goleto (in Irpinia), è personale, ma si trasforma quasi subito in una mossa più generale: «Vado per questa strada perché ho il sospetto che le luci nascoste che giungono da questi luoghi siano ancora capaci di offrire qualche solido orientamento. Perfino nella densa penombra calata sui giorni italiani. Busso a queste porte perché ho l’impressione che qui si impari davvero che si può cambiare il mondo, ma – faccenda piuttosto complicata – a patto di cominciare a cambiare se stessi…»

Questo viaggio, dicevo, non credo che lo farò mai – sorvolando sulla «faccenda piuttosto complicata» – da un lato per evitare quella sensazione di stare spiando in casa altrui, di cui ho parlato recentemente, dall’altro per la considerazione della «separazione» sulla quale si basa la scelta monastica. Sì, certo, l’ospitalità, quella benedettina ad esempio, non può in alcun modo essere trascurata, ma sarei tentato di vederla come un’inevitabile conseguenza di quella scelta, come se i cenobiti avessero sempre saputo che avrebbero richiamato pellegrini alle loro porte, mossi dai più diversi tipi di esigenze, e quindi era meglio prevedere sin da subito un fratello portinaio e un fratello foresterario.

(Tra parentesi, leggevo proprio nei giorni scorsi, in una splendida traduzione di Lorenzo Magalotti, le «Regole de’ forestieri» contenute nelle Regole della Trappa, che, secondo me molto indicativamente, cominciano così: «Non si riceveranno altri forestieri, che quelli che la carità e la pietà vorranno che si ricevano, e che s’averà motivo di credere indirizzati al monastero dalla Divina provvidenza. A questi tali si renderanno tutti i doveri dell’ospitalità, avvertendo sopra tutto di non fare apparire d’essere incomodati dalla loro visita».)

L’ospitalità, sì, tuttavia la separazione rimane, come dice molto chiaramente, in una delle interviste più significative del volume, dom Pietro Vittorelli, l’abate di Cassino: «Mi impressiona negativamente il fatto che il monachesimo sarebbe o starebbe tornando di moda. Un fatto di questo genere sarebbe assolutamente fuorviante per una corretta lettura di quello che il monachesimo è, sia nel mondo sia nella Chiesa stessa. Capisco, e non voglio dare giudizi perentori in merito, che ci possa essere la voglia, la tentazione di aggrapparsi ai monasteri come risposta a un’esigenza di maggiore cura spirituale, di cui vagamente si sente il bisogno. Però non è questa la ragione per cui noi monaci siamo monaci; per cui stiamo in monastero. Noi, pur con tutta l’attenzione che vogliamo riservare al mondo, siamo qui perché abbiamo scelto di stare fuori dal mondo».

Dunque non vado, a maggior ragione io che non vi cercherei una «cura spirituale», e mi limito a questa forma di ascolto che è la lettura, forse perché, nonostante la tentazione più che tipica che provo, non voglio stare fuori del mondo, forse perché non credo che si possa stare fuori del mondo (se non per forza maggiore o condanna). Senza mondo, mi verrebbe anche da aggiungere, non si dà monastero.

D’altra parte non è affatto un male che ci sia qualcuno, come Giorgio Boatti, che invece, con sguardo rispettoso ma anche critico, vada a vedere e ad ascoltare, e poi ci racconti che cosa ha visto e sentito (compreso il silenzio).

Giorgio Boatti, Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni, Laterza 2012. (Colgo l’occasione per ringraziare l’autore che nelle «Note e indicazioni bibliografiche» ha voluto citare, con parole generose, anche questo blog.)

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