Non credo all’«inesprimibile»… anzi, è più corretto dire che cerco di non praticarlo. Anche se si tratta di un artificio retorico carico di anni e di gloria, lo considero una scappatoia. Lo incontro non di rado nella letteratura monastica (e mistica) e tuttavia proprio in quelle pagine si rafforza la mia convinzione, perché sono pagine, appunto: dopo l’affermazione di rito, seguono parole che esprimono qualcosa, e quel qualcosa è ciò che conta.
L’ho incontrato di recente, l’appello all’inesprimibile, in un interessante «lettera-trattatello» di un anonimo monaco cisterciense del XIII secolo, il De amoris sapore, un argomento tipicamente cisterciense. È contenuto in un codice che viene datato tra il 1230 e il 1240, proveniente da Clairvaux e assemblato da un Giovanni che vi raccolse appunti e citazioni sul tema dell’amore di Dio. Anche alcuni particolari di contorno sono interessanti, ad esempio la nota che accompagna il titolo («Libro di Santa Maria di Chiaravalle. Sia benedetto chi ne avrà cura, sia maledetto chi lo porterà via. Ti prego, chiunque tu sia che leggerai questo libro, di ricordarti di Iohannes, che ha curato e trascritto questo libro. Egli ha dato a questo libro il titolo di Incenso delle Scritture [Resina Scripturarum]»), o il sottotitolo delle pagine in questione, che recita: «Trattato di un tale a un suo amico».
Richiesto di spiegare cosa sia, l’anonimo esordisce dicendo che «il sapore dell’amore può certamente essere sentito da qualcuno, ma non può essere spiegato da nessuno», se ne può fare soltanto esperienza. Stabilito questo, però, qualcosa si può dire, a cominciare dall’importanza del pianto come «introduzione» alla suddetta esperienza: le lacrime purificano lo sguardo affinché possa fissarsi sulla luce («è necessario che tu ponga nel Signore la tua intenzione e allontani l’oscurità degli occhi con il collirio delle lacrime [lacrimarum collirio]»); le lacrime, anzi una sola lacrima «dalla tua guancia salirà al cielo davanti agli occhi della maestà regale e, fedelmente, perorerà la tua causa».
Il tema vero e proprio viene introdotto da queste parole: «Penso, anche se non sono in grado di darne una definizione, che il sapore dell’amore sia, per così dire, una mescolanza di dolce e amaro, in certo modo un vino nuovo, profumato e gradevole al palato [quasi novum vinum odoriferum et sapidum], ma non puro». E viene successivamente sviluppato intorno al contrasto tra gaudium e dolor, con un grande sfoggio di chiasmi, ossimori e giochi di parole: dolore gioioso, amarezza dolcissima, struggimento delizioso, lacrimevole ardore, amore che ferisce, ferita che guarisce. Da questo fiorire di contrasti emergerebbe l’indicibilità, ma emerge anche la preoccupazione vivissima di differenziare l’esperienza dell’amore divino da quella dell’amore terreno, della quale pure si usa il lessico (seguendo inevitabilmente il Cantico). Tale intreccio di contrasti segnala soprattutto che il tempo dell’amore pieno non sarà mai questo, qui abbiamo soltanto una traccia per chi vuole mettersi sulla sua strada.
A questo proposito, tra l’altro, l’anonimo dedica un curioso inciso ai tre modi, sbagliati, di stare «lungo la via di questa vita»: ci sono infatti a) quelli che stanno distesi, attaccati alla terra (e quindi al ventre); b) quelli che stanno seduti (con un piede in due scarpe, insomma) e c) quelli che stanno in piedi e si guardano in giro curiosi. Nessuno di costoro giungerà mai alle «delizie spirituali», perché in qualche modo non spezzerà mai il proprio rapporto con la terra.
Soltanto coloro che sono in cammino, diretti al mondo che verrà e ignari di questo, le gusteranno, e saranno ricompensati del dolore che oggi li affligge. L’altro dolore, quello «degli uomini del mondo» che si struggono per i loro oggetti terreni d’amore, è solo l’inizio di un dolore eterno, mentre quello di chi cammina (dei «penitenti, religiosi e devoti») è preparazione della gioia futura. Noi, che soffriamo per l’assenza dell’amato, perché non sta bene, perché non ci parla, perché se n’è andato, e che gioiamo per la sua presenza fisica, non capiamo e non sappiamo «che quel male [quello dei penitenti] è meglio di ogni bene e che essere privi di quel male non è nient’altro che essere nel male». La vera gioia infatti «non potrà mai avere fine», conclude l’anonimo, il vero desiderio sarà colmato soltanto allora, «quando vedrai continuamente colui che amerai, e amerai con tutta la tua forza colui che vedrai».
Ma questo per me non è «inesprimibile», è esattamente quello che posso esprimere qui, adesso, nel corpo: vedere continuamente colui che amo e amare con tutta la mia forza colui che vedo. Sarà anche fragile e transitorio, «a scadenza» per dirla tutta, ma di sicuro non è «nel male» che ciò avviene.
Anonimo cistercense del XIII secolo, De amoris sapore. Il «sapore dell’amore» nel medioevo cistercense, a cura di Milvia Fioroni, Glossa 2011.