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Sì, d’accordo, i classici…

MedioevoMonastico Sì, d’accordo, i classici, però «in verità, quando si siano letti e riletti con grandissima passione e fatica, null’altro lasciano ai lettori se non vacua sonorità e rumor di parole» (Girolamo); diamogli comunque una letta, perché «se hanno detto per caso qualcosa di vero e conforme alla nostra fede… lo si deve rivendicare per il nostro uso» (Agostino). E se qualcuno «non saprà leggere, alle ore prima, terza e sesta andrà da chi lo può istruire… e, anche se non vuole, sarà costretto a leggere» (Pacomio) almeno qualcuno dei libri «che vi ho lasciato in unico armadio» (Cassiodoro). Occhio che «se qualcuno ordisca o tenti di sottrarre… anche uno solo di questi libri sopra elencati, non abbia parte nella resurrezione dei giusti, ma abbia parte con quelli che, posti alla sinistra, saranno dannati al fuoco eterno» (cod. Casin. 57).

Per i libri prego rivolgersi all’«armarius, che è anche maestro della scuola e bibliotecario, rivestito di un’aura da filosofo, si occupa con cura diligente della biblioteca… Non sia dunque né titubante né timido, ma molto fermo e mai dimentico della carità» (Consuetudines Floriacenses); sta a lui preoccuparsi della bontà dei testi perché «sappiamo tutti benissimo che, per quanto pericolosi possano essere gli errori di parole, molto più pericolosi sono gli errori di senso» (Karolis epistola de litteris colendis): io, per il lavoro di revisione, mi sono rivolto a Paolo Diacono, «nostro fedele e amico, invitandolo a percorrere con la massima attenzione gli scritti dei Padri, come per raccogliere dagli immensi prati delle loro opere fiorellini scelti e comporre come una ghirlanda tutto quanto vi trovasse di utile» (Karolis epistola generalis de emendatione librorum). Ci sarebbe anche Beda, che però viaggia molto ed è sempre preso a «imparare, insegnare, o scrivere» ed è fissato col computo.

Testi corretti, mi raccomando, perché la grammatica è importante. Diffidate di quelli che «affermano che, poiché Dio non si discute, né si menziona nell’arte della grammatica, dove risuonano solo nomi ed esempi dei pagani… può a ragione essere da loro respinta e ignorata. Evidentemente non sanno che insegnare una disciplina tecnica è una questione ben diversa dal parlare di Dio» (Smaragdo) e «senza colpa, anzi in modo lodevole, apprende quest’arte chi… desidera possedere la scienza del parlare correttamente e l’abilità dello scrivere». Anche perché, spesso, nelle Sacre Scritture «il senso, se inteso secondo il significato letterale delle parole, risulta assurdo» (Rabano Mauro); quindi leggiamo pure i poeti pagani per imparare la grammatica, mentre «i discorsi superflui sugli idoli, sull’amore, sulla cura delle cose mondane, li dobbiamo sradicare, radere a zero e tagliarli col ferro più tagliente, come si fa con le unghie» (Girolamo); «bisogna leggere le opere degli autori… chi si sarà abituato al loro stile, parlerà, senza neanche volerlo, in modo elegante» (Alcuino di York).

Ah, non dimentichiamo l’aritmetica, eh? «Se non assumerai come dato certo e inamovibile che il potere dei numeri risiede sia nel contenere in sé il principio di ogni cosa, sia nella loro facoltà generativa, non progredirai rapidamente verso la loro piena e perfetta comprensione» (Gerberto d’Aurillac); che poi noi «non si spese di meno nell’insegnamento della geometria, per la cui introduzione si fece costruire un abaco» (Richerio di Reims): si sa, d’altra parte, che «l’utilità di questa disciplina è estremamente grande… perché è la più sottile per stimolare i poteri dello spirito e dell’intelletto, per affinare la capacità di osservazione e la più piacevole per indagare con il potere della ragione molte cose definite vere, che sembrano a molti strane e sorprendenti» (Gerberto). Io, se devo essere sincero, «sia nei momenti di studio personale, sia nel mio lavoro, insegno ciò che so e imparo ciò che non so» (Gerberto).

Per quanto riguarda la musica – che «tra tutte le discipline nessuna ha via più diretta per raggiungere l’anima di quella che coinvolge l’udito» (Boezio) – ricordarsi che «il cielo e la terra e tutte le cose che in essi si compiono, per divino beneplacito, non si danno senza disciplina musicale» (Cassiodoro) e rivolgersi a Ucbaldo di Saint-Amand («Chiunque desideri essere iniziato ai rudimenti della musica… dovrà porre particolare attenzione alla qualità delle note, ossia all’altezza di ciascuna di esse»), ma soprattutto a Guido d’Arezzo, che mi ha scritto che ha messo a punto un sistema «affinché d’ora in poi, per suo mezzo, chiunque dotato di intelligenza e dedito allo studio impari facilmente il canto»; dice che dopo l’abc non c’è nemmeno bisogno dell’insegnante, e ha aggiunto che «se c’è qualcuno che pensa che io menta su questo, venga, sperimenti e veda [venga, sperimenti e veda!] che da noi fanno proprio in tal modo i ragazzi» (Guido).

In ogni caso, suggerisco anche di tradurre, poiché «quanto più facilmente si comprende nella propria lingua, ciò che si comprenderebbe a stento o solo in minima parte in una lingua straniera» (Notkero). E se vi mancano dei libri, «poiché non posso sostenere i costi dell’allestimento, mandatemi molti fogli di pergamena e ricompense per gli scribi e riceverete delle copie» (Notkero).

Con viva cordialità.

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Un piccolo giochino per ribadire l’eccezionale qualità del libro di Lidia Buono, Medioevo monastico nello specchio dei libri, di cui ho già detto qualcosa e dal quale sono tratte tutte queste citazioni.

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Il triplete ideale: monaci, Medioevo, libri

MedioevoMonastico Come potevo resistere davanti a un titolo del genere, che unisce tre centri di interesse sempre rinnovato: Medioevo monastico, nello specchio dei libri. Il corposo e ambizioso – a detta della stessa autrice – libro di Lidia Buono1 mira a «tracciare i percorsi attraverso cui l’ingente patrimonio culturale dell’antichità ha alimentato l’universo intellettuale del Medioevo», nella specifica declinazione monastica e ponendo al centro del discorso il libro «come medium della sacra scrittura e, in tal senso, spazio letterario e strumento d’elezione in cui si realizza l’incontro tra l’uomo e l’alterità divina». (E già qui, volendo, sarebbe bello poter decidere se anche oggi gli oggetti chiamati libri possono essere ancora luogo di incontro con una qualsivoglia alterità.)

I primi capitoli si concentrano sulla transizione tra cultura pagana e cultura cristiana, su come nelle prime esperienze cenobitiche occidentali (il Castellum Lucullanum di Eugippio e il Vivarium di Cassiodoro) viene organizzata concretamente questa transizione, per passare poi alla nascita dello scriptorium (e ai metodi di produzione dei libri, e della pergamena di cui sono fatti) e di una vera e propria biblioteca monastica (all’identificazione del luogo fisico e ai relativi sistemi di conservazione del patrimonio librario), all’impulso dato dalla riforma carolingia (ad esempio con la messa a punto di una nuova forma di scrittura corsiva, la carolina appunto) e alla creazione della schola. La seconda parte, assai ampia, è dedicata gli sviluppi della «produzione libraria» in rapporto alle singole arti del trivio e del quadrivio.

Date queste coordinate doverose, che garantiscono una lettura di un certo tipo, diremo da studiosi, va detto che il libro è pieno zeppo di cose interessanti, di informazioni tecniche, di personaggi, di citazioni (molto opportunamente tradotte), e anche di immagini molto istruttive. Grazie a una paziente ricognizione delle immagini che accompagnano i testi si può, ad esempio, imparare come si è passati dall’armarium, inteso come cassa o armadio dove vengono conservati i pochi codici disponibili, alla bibliotheca, intesa come «la piccola cella in cui vengono risposti i libri», come scrive Smaragdo di Saint-Mihiel parafrasando Isidoro per commentare Benedetto (non si tratta di name dropping, ma per ricordare che tutti si appoggiano a tutti); o dallo scriptorium come strumento di scrittura (lo stilo) allo scriptorium come luogo dove avviene la copiatura dei codici. Dice a tal proposito Alcuino di York, figura centrale del cosiddetto rinascimento carolingio: «Siedano qui coloro che scrivono le parole della sacra legge e quelle parimenti sacre dei santi Padri; e badino bene di non interporre a queste le loro frivole parole perché la loro mano, divenuta essa stessa frivola, non cada in errore. Cerchino invece con grande zelo di avere per sé libri corretti, e la loro penna veleggi sicura lungo una strada diritta. Distinguano bene il senso del discorso attraverso segmenti di significato e pongano i punti secondo l’ordine in cui devono essere posti, in modo che non legga cose false né si taccia all’improvviso dinanzi ai confratelli colui che legge in chiesa». Versi tratti da uno dei suoi carmi, a leggere tra le righe dei quali emerge una gran quantità di questioni, dalla stanchezza e dalla distrazione dei copisti che producono errori (per i quali si evoca persino la responsabilità di un vero e proprio diavolo dei refusi, Titivillus) alla necessità di procurarsi buoni esemplari, dall’importanza della punteggiatura alla lettura liturgica ad alta voce.

Già, la fatica di scrivere, come emerge dalle brevi note che ogni tanto saltano fuori dai colofoni o dagli explicit dei codici: «O felice lettore, lava le tue mani, poi prendi questo libro, sfoglialo con delicatezza, tieni le dita lontano dallo scritto. Poiché chi non conosce l’arte dello scrivere ritiene che non costi fatica alcuna. Quanto travaglio comporta invece: oscura gli occhi, spezza le reni e fiacca tutte le membra. Tre sole dita scrivono, ma tutto il corpo si affatica».

O ancora si imparano le sottili distinzioni tra armarium, inteso qui come persona, che diventa bibliothecarius, passando per il custos cartarum (che si preoccupa dei documenti) e il cantor (responsabile dei libri per la liturgia). I consuetudinari, cioè i testi che corredano la Regola di indicazioni più dettagliate e specifiche, si riempiono di precisazioni circa responsabilità e doveri di queste figure, che tendono a riassumersi in quella dell’armarium: il quale dovrà ad esempio annotare i titoli dei volumi, arieggiarli e badare che non siano aggrediti da umidità (humor parietum) o muffe, approntare adeguati scaffali in modo che siano ben collocati e accessibili (in quibus libri separatim ita collocari possint e distingui ab invicem), e che la compressione non li danneggi (ne vel nimia compressio ipsis libris noceat), verificare la punteggiatura, e così via.

Ogni pagina è ricca di esempi come questi e ne risulta un’immagine complessiva, ed esaltante, di un lavorio indefesso e di un continuo perfezionamento, anno dopo anno, codice dopo codice, riga dopo riga – un «lavoro di squadra» esteso nel tempo e nello spazio. E ogni tanto da questa schiera di anonimi emerge un nome, quello di un individuo che in un tal posto, in un tal momento ha fatto la tal cosa. Come nel caso del presbitero Emeterio, che alla fine di uno dei più bei manoscritti spagnoli del X secolo, il cosiddetto Beato di Tábara, ci ricorda più di mille anni dopo che «Io, Emeterio presbitero [Ego vere Emeterius presbiter] formato dal mio maestro, il presbitero Maius, quando vollero completare il libro per il loro Signore, fui chiamato al monastero di Tábara posto sotto la protezione di san Salvatore e quel libro che trovai solo iniziato, dall’inizio di maggio al 27 luglio, lo condussi in porto… E là sopra la prima cella [Emeterio] stette seduto per tre mesi, ricurvo sul suo lavoro e dove ne ebbe le membra squassate per l’uso del calamo. Il libro fu finito il 27 luglio, era 1008 (= 970), ore 8».

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  1. Lidia Buono, Medioevo monastico, nello specchio dei libri, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo 2023.

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