«Costoro, abbandonato il suolo terrestre, che tutti, senza eccezione, calpestiamo, in quanto dimora poco spirituale, e rifiutatisi di vivere sulla terra, si innalzarono, con tutto loro stessi, su colonne turrite o su pilastri elevati a un’altezza vertiginosa, vi piantarono il loro nido come uccelli amanti della quiete, e risiedettero a mezz’aria, senza tetto e senza suppellettili, a guisa di volatili, e praticando, nel corpo, una condotta di vita pari a quella degli angeli, e seguendo un comportamento al di là dell’umano, trascorsero moltissimi anni in modo soprannaturale». Così riassume perfettamente e introduce il suo argomento l’anonimo autore della Vita di san Luca stilita, citato da Laura Franco nel suo ottimo Al di sopra del mondo, ampia ricognizione del per certi versi misterioso fenomeno degli stiliti1.
In realtà, una delle cose che emergono con piena evidenza dalla lettura del libro è che di sicuro la vita degli stiliti non era quieta. Già la localizzazione delle colonne, nella maggior parte dei casi, rappresentava un ostacolo a tale quiete. Spesso infatti le colonne si trovavano in luoghi per così dire assai frequentati: crocevia, piccoli agglomerati non distanti da grandi centri, luoghi già in precedenza oggetto di pellegrinaggio, vicinanze di mercati, e così via. Lo stilita poi, con la sua semplice esistenza, richiamava persone di ogni tipo (e di ogni credo) e spesso intorno alla sua colonna sorgevano in breve piccoli edifici, monasteri, ma anche taverne, botteghe, alloggi per i viandanti, vere o presunte corti dei miracoli che erano assai criticate dai denigratori. Dallo stilita ci andavano i devoti, i malati, gli oppressi, i dubbiosi, chi cercava giustizia, ma ci andavano anche i vescovi, i governatori, financo gli imperatori, e un sacco di curiosi, perché lo stilita, si direbbe, a differenza degli anacoreti che si seppellivano in una grotta nel deserto, era anzitutto uno spettacolo cui assistere, una «cosa» da vedere e da ascoltare
Al di là di qualche vaga analogia con precedenti culti pagani, lo stilitismo cristiano è stato variamente interpretato, ad esempio come derivazione dall’«uso antico di collocare sulla sommità delle colonne busti o statue di dèi, o ritratti di imperatori» o di generali vittoriosi, quindi in chiave sia religiosa sia politica, sia anche giuridica; o ancora come evoluzione della disciplina ascetica della statio, lo stare immobili in preghiera, incuranti della situazione circostante; e naturalmente come variante, praticabile e prolungabile a tempo indeterminato, dell’essere inchiodati come Cristo in croce, patendone le medesime sofferenze. Lunga storia, quella degli stiliti, la cui diffusione l’autrice colloca al massimo grado tra il V e il VII secolo, in Siria, con varie propaggini soprattutto in Cappadocia, fino a Costantinopoli e in zone più periferiche dell’impero, e ampia documentazione (di area greco-bizantina), ovviamente agiografica, ma anche storiografica e archeologica (che si siano conservati alcuni dei basamenti su cui sorgevano le famose colonne abitate è un fatto che trovo emozionante).
Stabilite le coordinate storiche e geografiche, e inquadrato il fenomeno, l’autrice dedica un capitolo ciascuno ai sei stiliti più importanti (stiliti maschi, pochissime infatti le donne stilite, le stilitisse) e dei quali si sono conservate le biografie: Simeone il Vecchio, Daniele2, Simeone il Giovane, Alipio, Luca e Lazzaro di Galesio. Sei vite in cima a una colonna (o a più di una) che vanno dal 390 circa, nascita del primo Simeone, siriano, al 1053, morte di Lazzaro, originario di Magnesia al Meandro (nell’attuale Turchia). Di ognuno si raccontano le tappe di avvicinamento alla colonna, le particolarità, le forme di ascesi (aspetto che produce le pagine più sconvolgenti e piene di digiuni sovrumani, odori disgustosi, deformazioni, piaghe e vermi), le testimonianze non «inquinate» dall’agiografia, i rapporti (talvolta burrascosi, talaltre idilliaci) con le autorità laiche ed ecclesiastiche, il coinvolgimento con le comunità («[Simeone il Vecchio] si preoccupava della condotta morale delle piccole realtà rurali nei pressi»), la società e il mondo ai piedi delle colonne (che, data appunto la localizzazione delle colonne, poteva essere sorprendentemente animato), gli aspetti che li rendono simili e le differenze. Si dà conto di come presumibilmente erano fatte in concreto le colonne che li ospitavano (alte fino a 18 metri, alcune cave con scala interna, altre con scala esterna, dotate di piattaforma con balaustra ed eventualmente piccolo riparo o del tutto esposte al sole e agli elementi, corredate di grondaie e canaline di scolo), di come si organizzavano le comunità di discepoli intorno alla colonna (semplici recinti o veri e propri monasteri), degli «attendenti» che provvedevano alle (scarse) necessità dell’asceta, della routine quotidiana (pregare, anzitutto, ma poi anche dare udienza, dirimere controversie, distribuire insegnamenti, accogliere richieste e, naturalmente, procurare guarigioni – «un numero esorbitante di guarigioni», anche a distanza e per interposta persona o strumento –, conversioni e miracoli di varia natura), delle visite illustri e di quelle di tutti i giorni, delle occasioni eccezionali in cui si assistette alla discesa temporanea dello stilita e infine delle modalità, anch’esse spettacolari, della sua morte e della calata a terra del santo corpo.
Dopo una rapida carrellata su alcune altre figure di stiliti, e su una categoria di asceti simile e non meno curiosa, i dendriti, cioè coloro che sceglievano di fare penitenza vivendo su un albero o dentro di esso, il volume si chiude con un capitolo assai interessante sulla «fortuna» degli stiliti, dai quasi contemporanei storici bizantini a Edward Gibbon, da poeti come Tennyson, Kavafis e Rilke, a registi come Buñuel e Monicelli.
È pressoché inevitabile provare stupore davanti alla singolarissima eccentricità di questi personaggi, stupore che si condivide, oggi, con quello dei loro biografi («persino i biografi di Simeone [il Vecchio] sentirono il bisogno di giustificare l’eccentricità della scelta di vita dello stilita agli occhi del loro pubblico») e quello dei loro contemporanei, che non di rado andavano «a vedere lo stilita» quasi fosse un’attrazione del luogo da non perdere, una stranezza che «vaut le détour», come dicevano le guide Michelin («Teodoreto [di Cirro] racconta che uno spettatore [corsivo mio], intento a osservare Simeone [il Vecchio] in preghiera sul pilastro si mise a contare le genuflessioni effettuate dall’asceta in una sola giornata, e dopo essere arrivato a contarne milleduecentoquarantaquattro, rinunciò a continuare»); ed è inevitabile porsi delle domande, come se le ponevano i contemporanei e le ponevano direttamente agli asceti – l’immagine del mite vegliardo va senz’altro corretta: tanto per dire, Simeone il Giovane sale sul suo primo pilastro a sette anni e Lazzaro di Galesio dall’alto della sua colonna non perde occasione «di esercitare le sue funzioni di superiore [del monastero sottostante] nel segno di un marcato autoritarismo».
Domande che di certo si è posta anche l’autrice che, dopo oltre duecento pagine ineccepibili per precisione ed equilibrio, si riserva per sé giusto tre righe, proprio le ultime tre: «Gli stiliti di ogni tempo sono personaggi complessi, che ci possono affascinare per mille motivi, ma forse, soprattutto, come metafora della condizione umana, perché anche noi, come loro, rischiamo costantemente di cadere».
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- Laura Franco, Al di sopra del mondo. Vite di santi stiliti, Einaudi 2023.
- Della vita di Daniele, Laura Franco ha da non molto curato una bella edizione italiana: Fra terra e cielo. Vita di Daniele stilita, a cura di L. Franco, SE 2020.
