(la prima parte è qui)
«Per capire Fontenay», scrive Duby1, citando l’abbazia «figlia» di Clairvaux, fondata nel 1119 e uno degli esempi più alti dell’architettura cistercense, «in quello che ne forma il significato e il colmo della bellezza, bisogna avvicinarvisi passo passo, per i sentieri della foresta, nella pioggia d’ottobre attraverso i rovi e i pantani, faticosamente.» Occorre quindi raggiungere la radura, che rappresenta il nucleo, la prima conquista del drappello di monaci che si lasciano tutto alle spalle per cercare un luogo, sottratto a forza di braccia alla selva primordiale, dove rintracciare, ricostituire la regolarità dello spirito, la «somiglianza» a Dio smarrita nella «regione della dissomiglianza» che è il mondo con le sue irregolarità.
In realtà non proprio tutto si sono lasciati alle spalle questi monaci: il «soffio dei tempi nuovi» li segue, insieme ad esempio ai progressi tecnici, a una nuova considerazione del lavoro (compreso quello salariato, che viene impiegato) e persino a un diverso rapporto con il denaro come strumento che non viene disdegnato (si produce e si vende, e il ricavato si usa), tutte cose che produrranno una «espansione tumultuosa» e risultati economici ragguardevoli. Li segue, senza che quasi se ne accorgano, il «movimento di rinascita dell’individuo»: le nuove abbazie che sorgono a un ritmo impressionante non sono abitate da una massa indistinta di religiosi salmodianti, bensì da gruppi compatti di individui non ignari della società da cui provengono e non privi di personalità. Nei reparti di uomini che disboscano, bonificano, arano sopravvive quello spirito di cavalleria (lealtà, coraggio, amore), quel gusto per la conquista e in fondo anche per l’avventura che è lo stesso Bernardo ad aver portato a Clairvaux: «San Bernardo non ha mai rivolto il suo sguardo su altri uomini, se non cavalieri, su antichi cavalieri, i monaci di coro, e su gli altri che ha sognato di attirare a sé», dice Duby, e continua: «Bernardo sarebbe stato un cavaliere magnifico. Ma non imparò mai il maneggio delle armi. Se l’avesse fatto forse non si sarebbe mai stornato dal mondo».
Molto si portano dietro anche del monachesimo «vigente»: la scelta cenobitica, l’ascetismo, il rispetto del passato; l’idea è quella di rimettere il monachesimo al suo giusto posto, cioè ai margini: «L’ideologia cistercense, costruita sulla trama del disprezzo del mondo, non vuole aggiungere nulla, taglia, monda, epura, ed è per questa ragione che la costruzione di Cîteaux altra non è che quella di Cluny ripulita». E nei nuovi monasteri, specchio e scuola dove l’uomo giunge alla migliore conoscenza di sé, in nome della misura e dell’equilibrio esteriore ed interiore si distrugge il vecchio uomo e si fa emergere quello che, come si diceva, conserva la somiglianza. Si bonifica l’anima, allo stesso modo in cui si bonifica il luogo: «Una vittoria dell’ordine sul caos, sforzo dell’uomo per spogliarsi della primitiva rozzezza della selva, per ritrovare il posto da lui occupato prima della caduta, prima di smarrirsi nelle regioni di dissomiglianza, dominando le belve e la vegetazione selvaggia.»
Semplificando molto la parte dedicata al declino, in questo progetto di salvezza dell’anima e di edificazione della «città perfetta» c’era secondo Duby una falla, la falla dei fratelli conversi: «Senza accorgersene, i monaci erano sulla via di diventare quello che i fondatori dell’ordine avevano loro prescritto di non essere mai: dei signori» – e fu proprio la popolazione contadina ad allontanarsi per prima dai cistercensi. La vitalità di Cîteaux si raccolse altrove e la loro capacità di interpretare l’evoluzione dei tempi si trasferì ad altri «protagonisti» più in sintonia con tale evoluzione: gli stessi ordini cavallereschi, la Cattedrale, le confraternite, e poi gli ordini, mendicanti.
«La costruzione cistercense è la proiezione di un sogno di perfezione morale», riassume in una formula Duby, e al centro di questa costruzione c’è il chiostro, «crocicchio dell’universo» dove tutto è luce e chiarezza, raffigurazione di un paradiso ricostruito: «Un’area in cui giunge al suo termine l’addomesticamento del caos silvestre, in cui tutto il cosmico ridiventa collezione ordinata, accordo musicale». E non è forse per questo che i chiostri cistercensi piacciono tanto anche oggi, «oggi che ne rimane solo il guscio, che tanto più ci commuove in quanto è perfettamente vuoto»2? Perché quell’ideale, quell’immagine seppur fuggevole allo sguardo del turista, l’hanno conservato?
Ah, dunque esisteva un posto dove… esiste ancora…
(2-fine)
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- Georges Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, traduzione di M. Zini, Einaudi 1982 (ediz. orig. Saint Bernard. L’art cistercien, 1976).
- Forse non tutti sarebbero d’accordo su questo «vuoto».
Nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla sua pubblicazione, o forse proprio per questo motivo, il libro che Georges Duby ha dedicato all’arte cistercense (e a san Bernardo) si legge con grande piacere, e direi anche con grande profitto1. Il piacere è dovuto in gran parte al testo vero e proprio, steso in uno stile storiografico sempre meno frequentato che non rinuncia, in nome della precisione e del rigore, a un evidente impulso narrativo, sfrondato dagli apparati, che lo rende «appassionante»; mentre il profitto deriva dal fatto che la lettura di Duby del fenomeno artistico cistercense, eminentemente architettonico, potrà anche essere datata e da aggiornare (io però non lo so), ma non può essere di certo del tutto fuori fuoco.