Sollecitato dalle letture sullo statuto giuridico delle regole monastiche, ho voluto vedere, cominciare a vedere, quale sia lo stato attuale della questione e ho recuperato il commento più aggiornato e, probabilmente, autorevole alle relative norme del diritto canonico, cioè Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, di Antonio Calabrese. È un testo molto interessante, che si accende nel contrasto tra l’articolazione giuridica del pensiero, molto «geometrica» e attenta alla virgola, e la natura diciamo così speciale del suo «oggetto». Lo leggerò tutto perché è innegabile che un certo modo di argomentare mi attiri in sé, e perché voglio sapere, ma già il primo capitolo, che definisce «La vita consacrata», merita qualche appunto.
Anzitutto il commento alla natura di tale «vita», come viene stabilita dal Canone 573, che si fonda sulla «professione dei consigli evangelici»; professione che deve essere eseguita con un atto effettivo davanti alla «società ecclesiale»: infatti «una consacrazione con i relativi impegni presi nel foro interno non ha rilevanza giuridica». La vita consacrata che ne deriva è uno stato di vita, cioè «una condizione stabile di vita, derivante da una causa permanente, non facilmente mutabile» (con espressione che discende direttamente da Tommaso d’Aquino), è di origine divina, poiché divino è il suo fondatore, Gesù, e il suo fondamento, Dio; mira al conseguimento della perfezione, attraverso il dono di sé a Dio e l’imitazione di Gesù; è perpetua, lo deve essere almeno nell’intenzione.
La dedizione, vincolante, ai consigli evangelici degli individui consacrati è un «prolungamento» di quanto avviene col battesimo (ci si dedica «con nuovo e speciale titolo»). In questo senso la vita consacrata è uno stato «avanzato rispetto a quello dei semplici fedeli», poiché elimina gli «impedimenti» che potrebbero frapporsi al perseguimento della carità e poiché accede più decisamente alla «dimensione escatologica, in quanto testimonia nel mondo le realtà future, delle quali è segno luminoso».
Questi impedimenti, che la vita consacrata aggira, sono concisamente rappresentati dagli opposti dei consigli: «la concupiscenza della carne (vi si oppone la castità), la concupiscenza degli occhi o eccessiva sollecitudine per le cose temporali (vi si oppone la povertà), la superbia della vita [espressione molto curiosa] o tentazione del potere (vi si oppone l’obbedienza)». Se la trattazione di castità e povertà è sì interessante ma procede comunque entro binari noti (continenza nel celibato, castità non forzata, concentrazione dell’amore unicamente verso Dio; distacco di fatto e di spirito dai beni – questo il senso dell’espressione «poveri di spirito»), è il paragrafo dedicato all’obbedienza a spiccare, anche per la natura stessa del concetto. L’obbedienza ai superiori si estrinseca, a imitazione di Gesù, «come qualcosa di meglio della libertà di fare quello che si vuole», come rinuncia «a un bene superiore, quale è appunto la nostra libertà».
(Qui, pur dal mio angolino anonimo, mi è difficile tacere: proprio non capisco perché l’alternativa all’obbedienza debba essere per forza un generico «fare quello che si vuole». Se si escludono fatti di scarso rilievo, se in generale ci si riferisce alla dimensione comunitaria e sociale, io – come ipotetico soggetto – non faccio quasi mai «quello che voglio»; rispetto, scelgo o mi sforzo di rispettare, delle regole: quelle della convivenza civile, quelle stabilite dalla legge, quelle dell’attività lavorativa, quelle della ragione, ecc., volta a volta sono regole contrattate, accettate, discusse, subite, ma non hanno un fondamento esterno al loro contesto. Potrei quasi dire che non è necessario che lo abbiano, ma mi fermo subito. In ogni caso, non mi pare che dall’altra parte dell’obbedienza cieca ai superiori ci sia necessariamente il caos, l’esercizio brutale delle proprie voglie.)
L’obbedienza, si diceva, è dovuta ai propri superiori, «che sono considerati rappresentanti di Dio», il quale «vuole che il consacrato esegua quanto il superiore comanda». L’ambito di questo comando è rappresentato dalle norme dello specifico istituto, cioè «regole, costituzioni, statuti, costumanze, privilegi obbliganti, ecc.», e, per limitarsi a un solo aspetto di questa intricata trattazione, è molto curioso ciò che, per così dire, resta fuori da tale ambito, ciò che non può essere comandato, né deve essere obbedito. Per l’esattezza si tratta di quanto sta «contro, sopra, fuori o sotto il diritto proprio». Contro il diritto «è tutto ciò che è contrario alla legge divina, alla legge ecclesiastica o alla legge civile, purché sia giusta». Sopra il diritto ci sono le cose impossibili («perché nessuno è tenuto all’impossibile»), gli atti eroici («cioè straordinariamente difficili». I due esempi relativi sono stranamente accoppiati: assistere gli appestati o abbandonare l’insegnamento di ruolo, ottenuto tramite concorso ed esercitato da lungo tempo) e le austerità eccezionali. Fuori o sotto il diritto ci sono i precetti, che sono già comandati a prescindere dalla vita consacrata, e gli incarichi alieni al carisma dello specifico istituto (curare gli ammalati per un eremita).
E infine «le cose inutili, ridicole o irrazionali».
Antonio Calabrese, Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, terza edizione aggiornata, Libreria Editrice Vaticana 2011.
