Manualistica agostiniana

AgostinoUrna

Urna di sant’Agostino; S. Pietro in Ciel d’Oro, Pavia (foto Potts)

Il diacono cartaginese Deograzia chiede, intorno al 405, e il vescovo Agostino risponde. Avrei bisogno di un consiglio su come trattare i «principianti» (i rudes) che mi chiedono di essere istruiti nella fede cristiana, sono pieno di dubbi… Eh, ti capisco Deograzia, eccome se ti capisco, esordisce Agostino, e gli scodella un vero e proprio manuale pratico1, conciso, brillante, ricco di esempi e che trasuda sapienza psicologica ed esperienza sul campo («dico queste cose per esperienza…», «ti sono testimone di me stesso…»2).

Al centro dell’interessantissimo trattatello, tra una prima parte dedicata agli aspetti generali della questione, al fine e al valore della catechesi, ai motivi «di chi viene con l’intenzione di diventare cristiano», ai tipi diversi di ascoltatore, e una parte conclusiva occupata interamente da un esempio concreto (poniamo che si presenti un cittadino medio, «probabilmente lo indottrinerei con questo discorso…» – versione lunga e breve), Agostino elenca e analizza i principali motivi di insoddisfazione di chi insegna (il catechista; il professore?). Già, perché anch’io, dice Agostino, «mi rattristo nel dover constatare che la mia lingua non è in grado di esprimere il mio cuore. [Vorrei] che tutto quel che capisco venga capito da chi mi ascolta e mi accorgo di non parlare in modo che ciò avvenga…»

Non sempre, tuttavia, questa insoddisfazione nasce da una nostra mancanza di conoscenza. Può capitare, anzitutto, che l’ascoltatore resti impassibile: capisce? Non capisce? Si sta annoiando? Si è distratto? È necessario allora chiedere perché sta zitto e non reagisce nemmeno «con un gesto qualsiasi del corpo», e quindi aggiustare il tiro «secondo la sua risposta». Se poi l’ascoltatore sbadiglia bisogna «risvegliare il suo animo dicendo qualcosa condito da onesta allegria» – piazzare una battuta, insomma. Ah, è bene anche accertarsi che non sia stanco di stare in piedi, non c’è niente di male nel parlare e ascoltare seduti. Se l’impassibilità persiste, «raccontiamo qualcosa di veramente inaspettato e fuori del previsto». Breve, però!

Anche noi potremmo essere distratti, ad esempio da un pensiero grave, e ci annoia di dover tornare su ciò che «ci è notissimo», oppure avevamo altro da fare quando ci hanno chiamato. Avevamo tutte predisposte «secondo il nostro criterio le cose da fare» ed è arrivato uno che vuole sapere, domanda, insiste («Vieni a parlare con questo, vuole diventare cristiano», inciso di mirabile realismo). In tal caso, invece di seccarci, dobbiamo rallegrarcene, perché a Dio è piaciuto ordinare le cose secondo il Suo, di criterio.

Può capitare che ci manchino le parole, proprio quelle che ci parevano perfette quando leggevamo o ascoltavamo a nostra volta, e com’è che adesso non riusciamo a farci capire…? Né si può negare che possiamo essere stufi di ripetere sempre le stesse cose: ci salvi in questi casi l’amore fraterno: «Non accade forse di solito che quando mostriamo a chi non li ha mai visti prima luoghi belli ed ameni, di città o di campagna, che noi, avendoli già visti, attraversiamo senza alcun interesse, si rinnovi il nostro piacere nel loro piacere della novità? E tanto più, quanto sono amici!»

La carità verso i fratelli è sempre la motivazione dell’insegnamento e il rimedio per le insoddisfazioni e i problemi che possono sorgere: se questo è il fine di ogni discorso, «narra ogni cosa in modo che la persona a cui parli creda ascoltando, speri credendo ed ami sperando».

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  1. Agostino d’Ippona, La catechesi ai principianti (De catechizandis rudibus), introduzione, traduzione e note di A.M. Velli, Paoline 20234.
  2. «Ti sono testimone di me stesso che, ora in un modo, ora in un altro, mi sento condizionato quando vedo davanti a me da catechizzare un erudito, un ignorante, un cittadino, un pellegrino, un ricco, un povero, un privato, un personaggio degno d’onore con assegnata qualche carica, un uomo di questa o quella gente, di questa o quella età o sesso, di questa o quella setta, reduce da questo o quel peccato…» (Che bella, tra l’altro, la nozione di essere reduci da un peccato.)

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Frantumazione («La vita spirituale», di André Louf)

LaVitaSpirituale All’interno del volume antologico La vita spirituale di André Louf1, monaco trappista, abate e luminoso scrittore di cose, appunto, spirituali, ci sono tre saggi dedicati specificatamente alla vita in comunione, saggi che, come dice Enzo Bianchi nella prefazione, oltre a trarre valore da una lunghissima esperienza di abbaziato (35 anni presso l’abbazia di Mont des Cats nella Francia del Nord), contengono «elementi di sapienza in cui anche chi si professa non credente potrà trovare spunti a cui attingere per una vita sensata, unificata, riconciliata».

Il primo, Vivere in una comunità fraterna, del 1984, passa in rassegna i tratti caratteristici di una comunità che si voglia cristiana: un «luogo» costruito sulla debolezza umana («una comunità cristiana che non conti al suo interno persone con delle mancanze è molto semplicemente impensabile. Non solo non è possibile, ma non è neanche desiderabile»), un luogo di perdono («i compiti concreti che dobbiamo eventualmente assumere come comunità sono secondari. Poiché è il perdono l’esperienza fondamentale della comunità cristiana»), un luogo di guarigione («per il fatto stesso che una comunità cristiana è fondamentalmente edificata sul perdono, essa è essenzialmente anche un gruppo terapeutico»).

Il secondo, L’obbedienza nella tradizione monastica, del 1976, propone una sottile differenziazione tra obbedienza sociologica, quella per così dire «semplice», che si deve al superiore nelle mani del quale si rimette con un voto la propria volontà, e obbedienza spirituale, che è specificamente cristiana (deriva direttamente dal Cristo) e che può articolarsi, secondo André Louf, in tre aspetti, o doni, distinti: l’obbedienza-abbassamento, cioè la conservazione di uno stato continuato di inferiorità («la grande fatica del cenobita, il cuore della sua ascesi, si trova quasi sempre nell’obbedienza. È la notte benedettina per eccellenza»); l’obbedienza di docilità (o di discernimento), cioè la mortificazione delle volontà proprie (l’abate insiste sul plurale), con l’aiuto del padre spirituale; l’obbedienza profetica, che conduce alla manifestazione della volontà divina.

Ma è soprattutto il terzo saggio, Vita comune, scuola di carità, del 1996, a essere particolarmente interessante per «chi si professa non credente» (anche se ritiene irrealizzabile la «tripletta» indicata dall’allora priore di Bose). Traendo sostegno soprattutto dalla tradizione cistercense (Bernardo, of course, Guglielmo di Saint-Thierry, Baldovino di Ford), ma senza tralasciare gli esiti (e la terminologia) delle scienze sociali, Louf analizza alcuni momenti del vivere in comunità che ne fanno una «macchina di bene» (l’espressione, infelice, è mia). 1) Stare insieme è bello e «dà la certezza di essere aiutati in caso di difficoltà». 2) La vita fraterna è uno specchio, infallibile nel far emergere i propri difetti; lavoro psicologico e spirituale di primissima importanza, lo definisce l’abate, che «oggi verrebbe chiamato accettazione di sé, con il proprio passato, i propri desideri, le inevitabili frustrazioni e i propri limiti». Il cammino comunitario è il campo della contritio cordis, della «frantumazione del cuore»: espressione forte, ma efficace, che mi sento di assimilare al compito ultra-necessario di non mentire a se stessi. 3) La comunità è il luogo dove si manifesta la compassione (misericordia verso di sé e verso gli altri: nel rituale di ammissione alla comunità si viene interpellati con un «che cosa chiedi?», cui si risponde con «la misericordia di Dio e dell’Ordine»). 4) La vita fraterna, come si diceva, può diventare un «autentico cammino terapeutico». 5) Le osservanze della comunità sono un’occasione privilegiata di sperimentare le proprie debolezze e di viverle, idealmente, senza traumi. 6) La scoperta del valore della volontà comune e di un pluralismo orientato all’unità. 7) La possibilità della nascita di un’amicizia, che pur con le dovute cautele è «sempre un evento importante, che merita rispetto e attenzione – e l’abate prosegue in modo un po’ inatteso –, che si tratti di un’amicizia tra due persone che vivono nella stessa clausura o di un’amicizia con qualcuno all’esterno».

Le lezioni da ricavare da questo insieme di dinamiche sono molte, non tutte prive, devo dire dal mio punto di vista, di possibili ambiguità, come peraltro dimostra la realtà, soprattutto quando la premessa, o forse dovrei addirittura scrivere la Premessa, è distorta. Ma non è un discorso che sono in grado di fare. Quello che posso dire è che la mia preferenza va al punto 2: «Tutto ciò che ci irrita nei nostri fratelli c’insegna in primo luogo qualcosa su noi stessi».

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  1. André Louf, La vita spirituale, prefazione di E. Bianchi, traduzioni di L. Marino e R. Larini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2001.

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Al fuoco, al fuoco! (Dice il monaco, CXIX)

Dice Giovanni Battista Scaramelli, gesuita, morto nel 1752:

Ora se la virtù della modestia scaturisce dall’intimo dell’anima, come da propria fonte, e si diffonde per i sensi e le membra del corpo, come per tanti rivoli, a rendere decoroso il portamento dell’uomo, ne deduca il lettore quanto sia necessaria una tale virtù ad ogni persona spirituale, specialmente se sia religiosa, per mantenere il suo decoro e per dare al prossimo la debita edificazione, il quale, non potendo vedere l’aggiustatezza  e la compostezza degli affetti che essa tiene nascosti nell’animo suo, l’arguisce dai moti e dagli atteggiamenti esterni del suo corpo.

Se mentre camminate per le pubbliche strade vedete uscire dai tetti delle case del fumo, non dite subito che dentro quelle arde il fuoco? E giustamente, perché il fumo che esce di fuori è segno infallibile del fuoco che arde di dentro. Così, quando vi si vede poco cauto negli sguardi, peco regolato nel modo di parlare, di discorrere, di ridere, nei moti, negli andamenti, e scomposto nel vestire, si arguisce certamente la scompostezza della vostra anima, essendo tali immodestie segno sicuro del vostro disordinato interiore.

Battista Scaramelli, «Sulla compostezza di tutte le membra», in Direttorio ascetico, edizione curata con rifacimento linguistico dal p. Lorenzo Tognetti S.J., vol. II, art. 3, c. 3, 138, Istituto Missionario Pia Società S. Paolo, 1943, p. 154.

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Chi, se non noi monaci?

Talvolta, quando leggo «Vita Nostra», il semestrale dell’Associazione «Nuova Cîteaux», ho l’impressione, se non proprio di spiare dal buco della serratura, quantomeno di essere un ospite che ascolta una conversazione alla quale non era stato invitato. Non è l’organo ufficiale dell’Ordine Cistercense (dei suoi due rami) a uso interno, si tratta, in fondo, di una pubblicazione, tuttavia la mia sensazione è quella, poiché la quasi totalità degli articoli che vi vengono appunto pubblicati deriva da occasioni interne all’Ordine, spesso strettamente interne, come le «settimane di formazione», le lettere circolari, le «commissioni liturgiche», ecc. È una rivista scritta da monaci e monache che si rivolgono ai propri confratelli e consorelle, quindi, come si può immaginare, di eccezionale interesse per avere un’idea di cosa (alcun)i monaci e monache (cistercensi) di oggi pensano di se stessi e della loro scelta di vita.

Il primo numero del 2024, dal punto di vista sopra indicato, è assai notevole. A cominciare da alcune riflessioni dell’abate generale (ocso) Bernardus Peeters, sollecitate dalla domanda di un postulante che l’ha colto di sorpresa: «Qual è il vantaggio, per me e per la comunità, di appartenere a un Ordine?» La risposta dell’abate è concreta: «È un corpo grazie al quale siamo chiamati a sostenerci gli uni gli altri». E a riprova cita tre casi specifici di aiuto materiale: una colletta internazionale per una comunità in difficoltà («voi avete donato con generosità»); una visita a una comunità lungamente rimandata a causa di una guerra («la cerimonia ha avuto luogo mentre intorno continuavano i combattimenti»); l’ondata di solidarietà in seguito alla morte improvvisa di un abate («il fatto che noi fossimo là come comunità dell’Ordine»). È nella crisi che il legame di carità dell’Ordine si dispiega al massimo grado: «È proprio questo il momento in cui abbiamo disperatamente bisogno l’uno dell’altro come comunità».

A seguire con l’intervento di m. Cristiana Piccardo sul servizio abbaziale, sulle difficoltà del dialogo intra-comunitario, tra «aggiornamento» e rispetto degli Usi e delle Osservanze (come far convivere, ad esempio, lo stimolo al dialogo con l’osservanza del silenzio?) e sulla secolare dialettica tra libertà e obbedienza («la libertà aderisce a… ciò che è giusto e nato dalla ricerca sincera del bene comune»). A seguire ancora con le pacate rivendicazioni di Patrizia Girolami (ocso) in tema di liturgia: «Chi, se non noi monaci, possiamo gustare e testimoniare la bellezza della liturgia? Chi, se non noi monaci, possiamo riscoprirne il senso teologico e aiutare gli altri a riscoprirlo? Chi, se non noi monaci, possiamo offrire, oggi, la possibilità, a chiunque lo voglia, di vivere il mistero della liturgia?»

Per giungere infine, sorvolando su due articoli sull’esperienza di Tibhirine e sull’«attualità» di Guglielmo di Saint-Thierry che meritano un discorso a parte, all’articolo di Monica Della Volpe (ocso), estremamente significativo a partire dal titolo programmatico: Quali aspetti del nostro carisma potrebbero aiutare il monachesimo italiano a un rinnovamento e a rispondere alle sfide di oggi, non privo di punte più o meno velatamente polemiche (Bose, il sacerdozio dei monaci, il cosiddetto monachesimo urbano, le monache camaldolesi, Civitella, anche Viboldone e le «grandi abbazie benedettine [che] sembrano piuttosto soffocate dal peso di una storia») e che attacca con una presa di posizione inequivocabile: «La vita monastica ha avuto una sua resistenza, basandosi su usi e osservanze la cui validità era comprovata da secoli, ed è arrivata sino a oggi, talvolta però in condizioni pietose; dove è conservata, più che rinnovata, sembra tirare gli ultimi respiri». Il discorso si fa da qui complesso e delicato, e io, osservatore impreparato e non invitato, o mi fermo o ci penso bene prima di proseguire.

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Scrivere lettere, che traffico! (Dice il monaco, CXVIII)

Dice Bernardo di Chiaravalle, scrivendo al canonico Ogero, nel 1125:

E la mania di scrivere ci tiene tanto più impegnati, quanto più è faticosa, dato che, mentre neppure quando siamo presenti riusciamo a dire l’un l’altro facilmente quello che vogliamo, ci tocca in più, quando ci volgiamo agli assenti, dover esprimere accuratamente l’uno all’altro sia ciò che ci chiediamo reciprocamente sia ciò di cui siamo richiesti. Quando perciò, standoti lontano, penso, detto, scrivo e t’invio ciò che tu leggendo possa ricevere come se mi stessi accanto, dove va a finire la quiete, dove la pace del silenzio? «Ma questo – mi dirai – lo puoi fare anche stando in silenzio.» Ci sarebbe da meravigliarsi se proprio questa fosse la tua opinione in risposta alla mia. Non lo sai quale agitazione infuria nel cervello di chi detta, dove rumoreggia una caterva di espressioni, dove s’affolla una gran varietà di discorsi e diversità di significati, dove spesso si getta via ciò che viene sotto mano e si va in cerca di ciò che t’è scappato via? Dove si pone mente con ossessiva attenzione a ciò che sembra più bello secondo la forma o più logico secondo il contenuto, a che cosa sia più facilmente comprensibile o più giovevole alla buona coscienza e persino a ciò che va detto prima e ciò che va detto dopo, e a molte altre cose che i dotti son soliti considerare con estrema cura in queste occasioni? E in questo tu osi dirmi che c’è la quiete? E tu puoi chiamare silenzio questo stato di cose, anche se la lingua rimane ferma?

♦ Bernardo di Chiaravalle, Lettera LXXXIX, 1, in Lettere, Parte prima 1-210, introduzione di J. Leclercq, traduzione di E. Paratore, commento storico di F. Gastaldelli («Opere di San Bernardo», VI/1), Città Nuova 1986, pp. 443-445. (La lettera, con la quale Bernardo si rifiuta di rispondere ad alcune questioni di teologia scolastica poste da Ogero, contiene tra l’altro la famosa, e per certi versi famigerata, frase a effetto con cui, appunto, Bernardo motiva il suo rifiuto: «Poiché non è ufficio di un monaco, quale pare che io sia, o meglio di un peccatore quale sono in realtà, insegnare, ma piangere».)

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Chi controlla i controllori? (Voci, 36)

Vetus Disciplina Monastica Capitolo IV. I controllori

I controllori [circatores; circuitores] che, come prescrisse san Benedetto, devono ispezionare in determinate ore gli ambienti del monastero, notando le negligenze dei fratelli e le eventuali trasgressioni all’Ordine, sono scelti tra i più religiosi e ferventi di tutta la congregazione, affinché non denuncino maliziosamente alcuno per odio privato, né per privata amicizia, né, ad esempio, per il gusto di qualche scurrilità tacciano una inadempienza. Costoro si muovono ogni giorno dopo l’offerta della messa maggiore e di quella minore, e dopo cena, quando i fratelli si ristorano due volte, o dopo il pranzo, quando si ristorano una volta; partecipano all’ufficio dei defunti; si alzano spesso dalla mensa, durante la cena o il pranzo, ma non tutti, solo alcuni, quando sospettano di trovare  qualche negligenza nella cantina, o all’infermeria, o altrove vicino al refettorio, in modo che, nel caso, possano immediatamente riunirsi agli altri a fine pasto.

Sono soliti muoversi anche nell’intervallo di tempo che va dal suono della campanella fino al pranzo. Per consuetudine devono camminare religiosamente, sì da incutere paura in chi li vede e mostrare un chiaro esempio di comportamento. Devono procedere in modo silenzioso e severo, e non parlare mai con nessuno, né fare alcun segno, né buono né cattivo. Nel mentre, devono osservare con la massima diligenza e scoprire le offese e le negligenze. Quando trovano qualcuno che parla, devono ascoltare quanto possono mentre passano, affinché nessuno dei fratelli, come il cellerario o l’elemosiniere, o chiunque altro, si intrattenga con i servi di favole e cose inutili.

Questa deferenza deve essere da loro contenuta, sì che quando trovano due che conversano, posto che non vi siano né servi né laici, costoro possano rivolgersi a loro e dire che hanno il permesso di farlo, se è vero; ma se non lo è, debbano smettere. È consuetudine, infatti, che se trovano due fratelli che parlano, e che ne hanno avuto il permesso, uno di loro dica: Abbiamo il permesso di stare qui e di parlare. Dopodiché il controllore non deve denunciarli in capitolo. Ma se un controllore trova qualcuno che parla con un servo o con un laico, costui non deve giustificarsi in alcun modo, né fare alcunché, sia che ne abbia il premesso o no, né insorgere contro di lui.

Si noti anche che i controllori non devono mai andare in giro contemporaneamente, ma in modo tale che mentre uno esce dall’infermeria, l’altro vi entri poco dopo; e nello stesso modo si faccia riguardo agli altri ambienti e a tutti i luoghi in cui si vengano a trovare. Non devono mai uscire dal chiostro; coloro che sono stati comandati, tuttavia, possono talvolta sostare all’interno delle officine che sono collegate al chiostro, fermandosi sulla porta, dalla quale possano vedere ed essere visti, in modo da accorgersi di chi se ne va in giro.

I controllori vengono ascoltati con molta attenzione e riverenza in capitolo, poiché spetta soprattutto a loro di parlare, dopo che colui che presiede il capitolo abbia detto: «Parlate del vostro Ordine».

♦ Bernardo di Cluny, Ordo Cluniacensis, in d. Marquard Herrgott, Vetus Disciplina Monastica, Parigi 1776. [E mi auguro che la traduzione non contenga degli strafalcioni…]

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Comunicare agli altri

Credo che nessun monaco o monaca di oggi si avventurerebbe in una dimostrazione di preminenza del proprio Ordine quale quella, nemmeno tanto velata, che il p. Raimondo Spiazzi esprime nel suo libro del 1961 dedicato all’ideale domenicano1. Come è consuetudine, lo fa citando i padri, e nello specifico «montando» sapientemente alcune osservazioni di san Tommaso sul rapporto tra vita contemplativa e vita attiva e sulla loro sintesi.

Il modello supremo è, naturalmente, Gesù, che ha scelto e indicato al mondo la via apostolica, unione perfetta delle due forme di vita. «Qualcuno», concede il p. Spiazzi, «potrebbe pensare che sia più perfetta la vita contemplativa e che perciò il Cristo avrebbe dovuto condurre vita solitaria dal momento che alla vita contemplativa appartiene la solitudine.»

Gesù, però, ha fatto diversamente, perché la vita attiva, in virtù della spinta alla condivisione, cioè alla predicazione delle verità di cui la vita contemplativa si è nutrita, «è più perfetta della vita solamente contemplativa, perché tale vita presuppone l’abbondanza della contemplazione: e perciò il Cristo scelse tale vita».

La sintesi si realizza quindi nella figura del monaco-apostolo che contempla e agisce, salva se stesso e gli altri in una indissolubile fusione di intenti in cui entrambe le forme sono reciprocamente causa ed effetto.

E in questo direi che c’è da meditare una lezione di san Tommaso, che mi pare risuoni oggi anche senza avventurarsi nelle complessità del concetto di verità. Una lezione sul valore della condivisione del sapere, poiché, infatti, «come è maggior cosa illuminare che splendere solamente, così è maggior cosa comunicare agli altri le cose contemplate che solamente contemplare».

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  1. Raimondo Spiazzi, op, Via Dominici. Lo spirito e la regola di san Domenico, Presbyterium 1961.

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Via Benedicti

LaViaDiBenedetto La via di Benedetto di Monica Della Volpe1 è un testo nato da una viva esperienza di lectio all’interno della comunità del monastero trappista di Valserena («Non sono considerazioni astratte: tale è stata la nostra esperienza, riflettendo sulla quale abbiamo raccolto queste considerazioni, e abbiamo meglio capito l’esperienza stessa»), cioè, si potrebbe dire, di «interrogazione» della Regola, letta in parallelo con la Vita di Benedetto di Gregorio Magno, con l’intenzione di evidenziare la diretta dipendenza di quello che, in fondo, è un «testo giuridico» dalla biografia di chi l’ha scritto: «È evidente che san Gregorio ha compreso il valore della via benedettina per l’uomo del suo tempo, e lo ha spiegato, secondo uno stile di racconto sapienziale allora chiarissimo per il cristiano comune, oggi più difficile da interpretare».

È un testo estremamente «utile» e molto consigliabile a chiunque sia interessato ad ascoltare una voce autorevole del monachesimo contemporaneo, a capire come una badessa emerita di grande esperienza vede, pensa e rappresenta la propria forma di vita («Più che il parafulmine della Chiesa, la vita monastica deve essere il serbatoio della Chiesa, da dove poi, per vie a noi stessi ignote – ma in parte anche note – si dirami la sua segreta fecondità apostolica», il corsivo è mio), ma c’è un altro aspetto che mi ha colpito di più e in parte distratto nella lettura. In tutto il testo, infatti, si dipana, sottile ma solidissimo, un filo polemico nei confronti del cosiddetto relativismo contemporaneo, dell’«uomo relativista del XXI secolo che si annida in tutti noi» (neanche fosse lo sporco che appunto si annida negli angoli della casa e nelle fibre degli indumenti…) e una rivendicazione della «superiorità» del sapere divino rispetto al sapere mondano.

Già il giovanissimo Benedetto dimostra di avere la capacità – il carisma – di discernere tra vero e falso, tra bene e male (un aspetto «fondamentale anche nella Regola e in tutta la tradizione monastica»), quando abbandona Roma per cercare altrove la verità, «una sapienza più grande», e «sulla base di questo rifiuto Benedetto (Dio tramite Benedetto) fonderà una nuova scuola di Sapienza, diverrà padre della cultura europea, di tutto ciò che di buono, di tutto l’immenso tesoro che la civiltà europea ha prodotto», l’allibito corsivo è mio). E per ottenere questa nuova, vera, sapienza «è indispensabile rifiutare il mondo, cioè la sua visione della vita», fuggire la gloria e la vanagloria, non vivere per l’ammirazione, la lode altrui, non soccombere al culto di se stessi, «smettere di vivere costantemente sotto gli occhi degli altri, per iniziare a vivere sotto lo sguardo di Dio». Possiamo dire che c’è una punta di manicheismo in questa posizione? Come se il mondo fosse stato storicamente e sia un’entità unica e immutabile, caratterizzata da un’altrettanto immutabile visione della vita; come se una comunità orientata al bene comune non potesse per principio trovare proprio nello «sguardo degli altri» uno strumento positivo di comportamento. «Il problema vero, ai tempi di Benedetto come ai nostri, è quello di ben pensare per ben fare e non peccare. Di distinguere il bene dal male e il vero dal falso, di scoprire la Sapienza vera e di respingere quella falsa», certo, ma è saggio tagliar fuori da quest’opera di discernimento chi, sempre per così dire, non rifiuta il mondo, senza per questo accettarne le storture?

Quanto sia degna di rispetto e considerazione la via di Benedetto, cioè la via di Gesù, cioè «la quotidiana rinuncia a noi stessi per vivere come dono», non credo di aver bisogno di ripeterlo. Quanto l’egocentrismo sia responsabile di errori e sofferenze si sa. Quanto sia decisiva l’umiltà, questo «pensiero nuovo» che è «l’unico atteggiamento veramente ragionevole della mente umana», è assodato. Ma nelle parole della badessa emerita, prive anche del più piccolo residuo di dubbio, ancora una volta pare che l’alternativa alla «Verità con la V maiuscola», quella che l’essere umano può ricevere solo da Dio, ci sia il caos, lo scatenamento degli istinti più bassi, la guerra delle «voglie» (quasi fossero uccelli rapaci svolazzanti), la dittatura dell’io che divora tutto – mettere l’io al centro produrrà «una visione che non corrisponde a verità e inevitabilmente tenterà di violentare la realtà in un modo o nell’altro»: sì, certo, mettendo l’io al centro, ma mettendo il noi? Un noi storico, multiforme, immanente, faticoso?

«Non sprecheremo qui parole», scrive m. Della Volpe, «per dimostrare che l’uomo che non cerca la Verità e non cerca Dio, lungi dal raggiungere una più grande comunione con gli altri uomini, si rinchiude in se stesso, nell’individualismo o nella disperazione, e tende in questo modo a perdere le sue più genuine caratteristiche umane. La cosa è sotto gli occhi di tutti coloro che sono capaci di vedere».

Forse non sarebbero state sprecate, poiché, evidentemente, non sono capace di vedere. Pace.

(1-segue, forse)

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  1. Monica Della Volpe, La via di Benedetto. Dalla Vita alla Regola, prefazione di G. Meiattini, osb, presentazione di M.F. Righi, ocso, Nerbini 2022 (Quaderni di Valserena; 12).

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Anime semplici o che tendono a ritrovare la semplicità

CercareDioNellaSuaParola «Ogni relazione con Dio si basa su un diligente ascolto», afferma il benedettino Guy-Marie Oury (1929-2000, professo a Solesmes) nella prima pagina del suo libro sulla lectio divina1, ed è anzitutto nella Sacra Scrittura «che si può incontrare meglio Dio e ciò che egli ha detto di se stesso».

Per il monaco – il monaco di tutti i tempi, come d. Oury mostra nell’excursus storico cui dedica uno dei capitoli del libro – la lectio divina è la pratica fondamentale di accesso alla Bibbia: pratica di ascolto, durante l’ufficio; di lettura, ancora durante l’ufficio e nel tempo personale; di «meditazione incessante», che si «intromette» in tutte le sue occupazioni.

Ruminatio, masticatio, manducatio – tutti termini che si riferiscono alla pratica della lectio e che rimandano a un processo di ingestione, digestione e nutrimento: «La Lectio è dunque una refezione spirituale dell’anima nel suo cammino verso Dio». Studio e preghiera vi sono intimamente collegati, perché non è mai un’attività per così dire «oggettiva» (tutto quello che Dio ha detto «ci riguarda personalmente»), è anche uno strumento, un «luogo» di trasformazione, che per essere tale ha bisogno di essere liberato dalla pressione continua degli impegni materiali, dalle distrazioni («la distractio è la causa di tutti gli abbattimenti del monaco»), dal fiume di immagini che provengono dal mondo, dal desiderio di sapere «mille cose inutili».

La lectio si può estendere, e di fatto si è estesa, anche oltre la Bibbia, alle opere ascetiche, ai trattati sulla preghiera, alle memorie autobiografiche, ai libri di meditazione e naturalmente alle agiografie: «Si pensi al beneficio che hanno ricavato le anime semplici – e i monaci sono anime semplici o che tendono a ritrovare la semplicità», dalle raccolte di miracoli e dalle vite dei santi.

Al di là dei pochi aspetti evidenziati qui, a differenza della esaustiva trattazione di d. Oury, che esplora gli aspetti storici, pratici, dottrinali, teologici, ecc., sono molte le… lezioni della lectio che possono tornare utili per non rimanere confinati in una delle funzioni oggi consuete della lettura: informazione, studio, svago e consolazione. La continuità, anzitutto, il contenimento della distrazione, l’ascolto, l’atteggiamento discente, la meditazione e l’abitudine di porre domande – le proprie domande – al testo che si legge. Anche qui, insomma, mi pare ci sia «qualcosa» che sarebbe insensato scartare sulla base di un pregiudizio. Se la lectio nasce con la qualifica di divina, credo si possa provare a cambiare quell’aggettivo così carico di «problemi» e tentare di definire una lectio humana. Che poi, quando leggo del rapporto che monaci e monache hanno con la Bibbia, e attraverso di essa con Dio, mi viene da dire che la lectio, a occhi contemporanei, può quasi sembrare un prototipo della psicoanalisi: stesi sul lettino della Sacra Scrittura, a leggere/parlare di sé con un Analista che non si vede, parla davvero poco, ma ascolta tutto. In fondo, quando d. Oury dice che è nella Bibbia «che si può incontrare meglio Dio e ciò che egli ha detto di se stesso», aggiunge anche: «È qui che si può meglio vedere, come in uno specchio, ciò che gli uomini… sono e devono essere».

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  1. Guy-Marie Oury, Cercare Dio nella sua parola. La Lectio divina, presentazione di A.M. Cànopi, traduzione di L. Zardi, Edizioni Paoline 1987.

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Vento, mare, tempesta (Dice il monaco, CXVII)

Dice Isacco della Stella, monaco e abate cistercense, dopo il 1150:

Perciò, fratelli miei, dobbiamo vigilare con somma cura, e farlo con tanta maggiore attenzione avendo noi scelto una solitudine remotissima, a che nella barca del nostro uomo interiore, per il quale l’uomo esteriore è come un mare, mai dorma la parola di Dio, dato che lui in sé né dorme né sonnecchia mai. Un Cristo che sia ozioso non può vegliare su di noi e, per dirla breve, egli vuole sempre che gli si chieda qualcosa o che lo si interroghi, e certo vuole che, mentre parla lui, lo ascoltiamo da svegli. Infatti, fratello, se mentre lui parla cominci a dormire di fronte a lui, subito egli dormirà di fronte a te. Ma guai a te se egli ti si addormenta davanti! Per te è sveglio il vento, è sveglio il mare, è sveglia la tempesta, sono svegli i flutti dei pensieri e il ribollire di mille tentazioni se per te soltanto lui dorme. Perciò prega e digli con il Profeta: «Illumina, Signore, i miei occhi perché non mi addormenti mai nella morte». […] Dove sono quelli che nel chiostro sonnecchiano sui loro libri, durante la lettura nell’oratorio russano, e di fronte a un discorso fatto a viva voce nel capitolo dormono? In questi casi il Verbo di Dio parla, ma non gli si fa caso. Il Signore, il maestro parla, e l’uomo, il discepolo dorme.

♦ Isacco della Stella, Sermone secondo per la quarta domenica dopo l’Epifania, in I sermoni, vol. II, Mariale – Santorale – Tempo ordinario, a cura di D. Pezzini, Paoline 2007, pp. 248-49.

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