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L’apprezzato disprezzo del mondo

Sto leggendo un altro saggio che già dal titolo fa sentire più eruditi: Il contemptus mundi nella scuola di S. Vittore, di Francesco Lazzari, storico delle religioni che già avevo incontrato in simili circostanze titolistiche. Il «disprezzo del mondo» è argomento classico della letteratura monastica, e prima di analizzarne la particolare declinazione che ne fanno i vittorini, Ugo e Riccardo soprattutto, lo studioso ne rintraccia i precedenti, fornendo un elenco a un tempo dottissimo e irresistibile. Sicché non resisto e lo riporto qui.

  • Ambrogio, De fuga saeculi
  • Eucherio di Lione, Epistola parenetica de contemptu mundi et saecularis philosophiae
  • Pietro Crisologo, Sermo de terrenorum cura despicienda
  • Fulgenzio di Ruspe, Epistola de conversione a saeculo
  • Leandro di Siviglia, Regula sive Liber de institutione virginum et contemptu mundi
  • Gregorio Magno, Moralia in Job
  • Colombano, Instructio III De sectando mundi contemptu et coelestium bonorum amore
  • Isidoro di Siviglia, De brevitate vitae
  • Eugenio di Toledo, Commonitio mortalitatis humanae

E siamo all’XI secolo.

  • Ermanno di Reichenau, Carmen de contemptu mundi
  • Pier Damiani, De contemptu saeculi; De fluxa mundi gloria et saeculi despectione
  • Guglielmo di S. Arnulfo, Epistola ad saeculi contemptum
  • Roger di Caen, Carmen de contemptu mundi

Senza contare gli anonimi… Ed eccoci alla «fioritura del XII secolo».

  • Marbodio di Rennes, Contemptus praesentis vitae
  • Ildeberto di Lavardin, De lapsu mundi
  • Goffredo di Vendôme, Epistole
  • Elmero di Canterbury, Meditatio de humanae conditionis dignitate et miseria
  • Ugo di S. Vittore, In Ecclesiastem; De vanitate mundi et rerum transeuntium usu
  • Riccardo di S. Vittore, De exterminatione mali et promotione boni
  • Adamo di S. Vittore, Haeres peccati, natura filius irae
  • Roberto Pullen, De contemptu mundi
  • Bernardo di Varey, Epistola de fuga saeculi
  • Giovanni di Montmédy, Epistola de fuga saeculi
  • Bernardo di Clairvaux, Sermo de fallacia et brevitate vitae praesentis
  • Bernardo di Cluny, De contemptu mundi
  • Enrico di Huntingdon, Epistola de mundi contemptu
  • Tommaso di Beverley, De contemptu mundi
  • Nicola di Chiaravalle, Epistola ad ordinem et mundi contemptum
  • Goffredo di Auxerre, Declamatio de reliquendis omnibus
  • Pietro Cantore, De brevitate temporis vitae humanae semper habenda in corde
  • Goffredo di S. Barbara, Epistola ad mundi contemptum
  • Alano di Lilla, Summa de arte praedicatoria, II, De contemptu mundi
  • Adamo di Perseigne, Epistola ad mundi contemptum

«Il secolo si chiude con un trattato che sarà celebre ed eserciterà una vastissima e profonda influenza: il De miseria humanae conditionis di Innocenzo III. Dopo il IV concilio del Laterano (1215), il tema vede diminuire la sua fortuna.» Be’, non si può dire che non siamo ben forniti…

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Pietro il Venerabile e ’sto catarro che non passa (pt. 2)

(la prima parte è qui)

Come si diceva, abbiamo la risposta del medico e l’attacco dimostra la piena consapevolezza da parte del mittente del rango del destinatario: «Dopo aver esaminato la lettera di vostra sublimità, mi sono addolorato che un uomo tanto necessario alla Chiesa di Dio fosse violentemente afflitto da sofferenze fisiche… Quando giunsi a Cluny l’anno scorso, il vostro amore mi accolse con onore, senza che io meritassi nulla da voi, mi rese addirittura partecipe della vostra fraternità», ecc. ecc. Quindi, come vedete, non ho tardato a inviare alla vostra sublimità Bernardo, il latore della presente», mio amico e collaboratore, ampiamente preparato ad affrontare quello di cui mi dite. Se poi ci sarà bisogno, verrò anch’io.

«Per quanto riguarda la vostra cura, considerate questo: la flebotomia, a mio parere, dovrebbe essere rinviata finché la voce non cominci a tornare alla sua funzione precedente». Infatti il vostro problema risiede più nel catarro che nell’abbondanza di sangue, cosa che ho notato anche l’anno scorso. Ripetete pure il cauterio, senza temere che possa danneggiare la vostra vista. Circa il fatto che i vostri medici vi hanno convinto a usare rimedi umidi, ma che vi è sembrato più salutare usare rimedi secchi contro la materia umida della malattia, rispondo che non c’è contraddizione, per quanto possa sembrare. Infatti alcuni rimedi, potenzialmente secchi, sono effettivamente umidi, in quanto più chiaramente inumidiscono e leniscono. Anche i testi lo confermano. La mirra, ad esempio, come è affermato nel Libro dei Gradi, è secca, onde asciuga anche gli umori putridi, ma fa bene anche all’irritazione dei canali polmonari e delle palpebre. E ciò fa in virtù della sua viscosità e gommosità. «Riguardo a bagni e stufe, a suffumigi e fomenti al petto, a pillole da tenere sotto la lingua, a pillole per il catarro a base di balsamato paolino, a gargarismi e simili, ne ho discusso a sufficienza con il nostro Bernardo, che, se piace alla vostra reverenza e bontà, non tardate a rimandare a noi il più presto possibile.» Sono stato rassicurato dal suo resoconto sulla vostra condizione e se c’è qualcosa da modificare, me ne occuperò senz’altro.

La chiusa è finissima: «Valete, che possiate stare bene per la misericordia di Dio e per i rimedi che vi sono stati prescritti» – cioè lo sappiamo entrambi che la salute è un dono di Dio, però voi intanto fate quello che vi è stato detto…

(2-fine)

♦ Ho ricavato tutto questo da una memoria di Henri Quentin, osb, Une correspondance medicale de Pierre le Venerable avec Magister Bartholomeus, raccolta nella Miscellanea Francesco Ehrle: Scritti di storia e paleografia pubblicati sotto gli auspici di S. S. Pio XI in occasione dell’ottantesimo natalizio dell’e.mo cardinale Francesco Ehrle, vol. I, per la storia della teologia e della filosofia, Biblioteca Apostolica Vaticana 1924, pp. 80-86.

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Pietro il Venerabile e ’sto catarro che non passa (pt. 1)

In età non più giovanissima, diciamo intorno al 1150, cioè verso i 58 anni, Pietro il Venerabile, abate della grande Cluny da quasi trent’anni, scrive una lunga lettera al magister Bartolomeo per chiedergli un consiglio medico. «Gli storici della medicina riportano, proprio in questo periodo, un celebre Maestro Bartolomeo, autore di opere che lo collegano alla scuola salernitana e che risulta essere allievo di Costantino l’Africano, monaco e medico di Montecassino, morto nel 1087. Bartolomeo stesso fu commentato da un certo Bernardus provincialis [cioè di Provenza], che scrisse intorno al 1150-1160», le date tornano. La richiesta di Pietro peraltro non è strana: oltre al fatto che i due, come emerge dalla lettera, si sono conosciuti a Cluny «l’anno passato», l’abate cluniacense era una delle figure più prominenti della cristianità – per dirla in termini moderni: uno che, se chiede qualcosa, gli si risponde.

Certo, dice Pietro, «avrei preferito riversarti queste cose nelle orecchie da solo piuttosto che fartele leggere», ma io non posso muovermi né tu puoi venire, e inoltre la tua conoscenza è tale che anche in base a un resoconto potrai aiutarmi (e poi magari mi manderai quel tuo collaboratore, Bernardo, che mi ha fatto un’ottima impressione). E il resoconto di Pietro è invero accuratissimo. Riassumiamolo.

Allora, di solito sono afflitto dalla «malattia chiamata catarro quasi ogni anno», in genere due volte: una in estate, una in inverno; quest’anno mi è venuta alla fine dell’estate e all’inizio dell’autunno. Nei mesi estivi ho avuto un sacco di problemi coi nobili del luogo e sono «stato costretto a rinviare il consueto salasso», anzi l’ho saltato perché ormai il catarro ce l’avevo e perché ho sentito da alcuni che poteva essere pericoloso. Da costoro ho anche appreso che un uomo con una malattia catarrale, salassato, «perde la voce in modo permanente o per lungo tempo.» Ho sentito dire tante altre cose e allora ho ritardato il salasso di circa quattro mesi, «ma poiché il catarro non scompariva come al solito o nei tempi previsti, e temevo di incorrere in una sorta di febbre per l’eccesso di sangue o di catarro», ho finito col farlo e anche abbondante. «Ciò che i miei profeti avevano predetto è accaduto: il catarro non se ne è andato, né la voce è tornata al suo stato precedente dopo tre mesi.» Risultato, non sto bene ed espettoro molto. Mi hanno consigliato di assumere cibi caldi e umidi, «e quando ho obiettato che la malattia si sarebbe dovuta più ragionevolmente contrastare con cibi caldi e secchi, in modo che la medicina combattesse la malattia non con una sola qualità, ma con due, non sono stati d’accordo né mi hanno spiegato il motivo… dicendo che la gola, le arterie e certe altre cose di cui non conosco bene i nomi devono essere lenite con cibi umidi, non aggravate con cibi secchi». Hanno aggiunto che, oltre alla dieta, «dragagantum [acanto], issopo, cumino, regolizia, gli stessi fichi, o tutti insieme o alcuni di essi bolliti nel vino e dati come bevanda prima di coricarsi, potevano essere di beneficio. Cosa che ho spesso tentato, ma invano.» I medici qui hanno discusso a lungo «e sebbene a volte ciò che dicevano non mi sembrasse sufficientemente ragionevole, tuttavia ho ceduto, e ho seguito la dieta e assunti i rimedi che mi hanno consigliato per quasi tre mesi, come ho detto sopra. Ritengo che finora mi abbiano giovato poco o quasi nulla.» A questo punto aiutami tu.

Prima che la situazione peggiori, dimmi cosa devo fare, «e non sorprenderti se mi preoccupo non solo della salute, ma anche del recupero della voce»: sai bene che io, se i miei doveri non mi costringessero diversamente, resterei tanto volentieri muto, «ma poiché non la minima, bensì la massima parte dei miei doveri abbisogna della lingua o della voce, non potrei adempiervi se mi mancassero». La voce mi è necessaria non solo per leggere, per cantare, per celebrare i sacramenti, cosa comune anche a molti inferiori, ma soprattutto per l’alta e sublime predicazione della parola divina, quando Dio mi dice per mezzo del profeta: «Grida a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la voce» [Isaia, 58, 1]. Come posso allora gridare senza voce? «Per dirla in breve, l’uso della voce di Dio è necessario per me e per ogni rettore della Chiesa di Dio, così che, se sono pigri, devono essere cani muti incapaci di abbaiare, oppure, se non lo sono, devono usare la voce di Giovanni Battista: “Io sono la voce di uno che grida nel deserto”.»

La cosa interessante è che abbiamo la risposta di maestro Bartolomeo, il suo consulto scritto, dal quale si evince tra l’altro che in effetti mandò Bernardo a visitare Pietro.

(1-segue)

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Cercasi/Offresi eremita

 Nella prefazione di Laurence Freeman al volume sull’eremitismo contemporaneo di cui scrivevo un paio di settimane fa ho letto un inciso che, come si suol dire, ha subito acceso la mia curiosità: «Nel XVIII e XIX secolo divenne di moda tra i ricchi proprietari [inglesi] avere un eremita o una reclusa nella loro proprietà. Era solo un’attrazione per i loro ospiti, ma forse tradiva anche la nostalgia per qualcosa che erano inconsapevoli di aver perduto a causa dell’opulenza materiale e della superficialità della religione istituzionale»1. Una breve ricerca e ho «scoperto» un fenomeno che, come quasi tutto, è ampiamente trattato, quello che gli inglesi chiamano degli ornamental hermits, sì, gli eremiti ornamentali, decorativi.

Più che tra i fenomeni di derivazione religiosa gli eremiti ornamentali sono rubricati dagli inglesi tra le eccentricità, non a caso il testo più citato sull’argomento è un saggio di Edith Sitwell, Ancient and Ornamental Hermits, raccolto nel volume del 1957 English Eccentrics2, saggio che riprende un capitolo di English Eccentrics and Eccentricities di John Timbs, pubblicato nel 1875. A sistemare in lungo e in largo la questione, è arrivato in tempi più recenti il volume The Hermit in the Garden, di Gordon Campbell3, un professore di Oxford (che forse si candida a essere il Professore di Oxford per antonomasia, come dimostra questa presentazione).

Così ho imparato che non era infrequente trovare nei giardini delle residenze nobiliari di campagna delle «situazioni» che venivano definite eremitaggi, volta a volta simboli della moda del «ritorno alla natura» (Rousseau docet, «gli eremiti ornamentali sono l’incarnazione dell’ideale di Rousseau»), della diffusione della «sensibilità» («L’eremitaggio e il suo eremita fisico o immaginario rappresentavano l’inclinazione della persona sensibile per il mondo naturale e le sfumature emotive suscitate dal ritiro malinconico»), del piacere riconquistato della solitudine e del silenzio, e della dolce malinconia che ne deriva (Milton docet, «Il Penseroso di Milton è il testo del XVIII secolo che “fonda” il culto della malinconia») – del grande armamentario romantico intriso di letteratura e che annoverava, tra l’altro, piccoli cimiteri sotto la luna, paesaggi «selvaggi», iscrizioni smangiate dal tempo, capanne nel bosco e rovine (rovine di monasteri abbandonati in testa). Tali «situazioni» comprendevano piccole grotte, ruderi, casette sugli e negli alberi, padiglioncini, baite (come non pensare a quella di Thomas Merton, anche se non c’entra niente), il più delle volte vuote, o al massimo con dei segni che indicavano che qualcuno si era solo temporaneamente allontanato, o con una figura impagliata o addirittura un automa capace di movimenti e… suoni (nel resoconto di una visita del 1801 a Hawkstone Park, nello Shropshire, si legge: «Fummo condotti nella cella dell’eremita, che è certamente la migliore rappresentazione che io abbia mai visto di ciò che i poeti descrivono. Si suona un campanello e la porta si apre immediatamente da sola rivelando un venerabile vecchio scalzo e seduto in una nicchia con un tavolo davanti a sé, su cui si trovano un teschio, una clessidra, un libro e un paio di occhiali; si alza al vostro avvicinarsi e si inchina. Quando gli rivolgete delle domande, muove le labbra e risponde con voce roca e cupa, tossendo come se fosse quasi esausto. Ci disse di avere cento anni e di aver trascorso lì la maggior parte della sua vita. Sopra la nicchia c’era scritto “Memento mori” a caratteri cubitali, ma c’erano altre righe che non riuscivo a decifrare per mancanza di luce…» – ah, la voce è quella del giardiniere opportunamente celato alla vista).

Talvolta però l’eremita era in carne e ossa ed era un individuo che veniva assunto per impersonarlo a fronte di uno stipendio e di un mansionario che prevedeva capelli e barba lunghi (e spesso anche unghie), silenzio, atteggiamento malinconico e severo, lettura (vera o simulata). Un impiego per il quale non era impensabile mettere un annuncio di ricerca o di offerta (anche se il professor Campbell non ne è del tutto certo), Scrive Timbs: «Un corrispondente di Notes and Queries descrive un gentiluomo vicino a Preston, nel Lancashire, [che] pubblicò un annuncio di una ricompensa di 50 scellini all’anno, a vita per chiunque si impegnasse a vivere sette anni sottoterra, senza vedere anima viva, e a lasciarsi crescere le unghie dei piedi e delle mani, insieme ai capelli e alla barba, per tutto il tempo. Un apposito appartamento sotterraneo è stato allestito, molto spazioso, con un bagno freddo, un organo da camera, tanti libri a piacere e provviste servite dalla propria tavola». E qualche pagina dopo aggiunge: «Una persona pubblicò un annuncio di ricerca di impiego come eremita, sul Courier dell’11 gennaio 1810: “Un giovane, che desidera ritirarsi dal mondo e vivere da eremita in un luogo conveniente in Inghilterra, è disposto a impegnarsi con qualsiasi nobile o gentiluomo che desideri averne uno. Qualsiasi lettera indirizzata a S. Lawrence (affrancata), da lasciare presso il signor Otton, n. 6, Coleman’s Lane, Plymouth, che specifichi quale gratifica verrà offerta insieme con tutti gli altri dettagli, sarà debitamente esaminata”».

Per conoscere il declino e gli sviluppi ulteriori del fenomeno, le sue propaggini novecentesche, fino, forse, ai famigerati nanetti da giardino, non c’è che rivolgersi al volume del professor Campbell, piccolo esempio luminoso di curiosità, ricerca e rinfrancante umorismo – non posso citarlo tutto…

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  1. Il silenzio e i suoi sentieri. L’esperienza dell’eremo nel nostro tempo, a cura di G. Giambalvo Dal Ben, prefazione di L. Freeman, Effatà Editrice 2024, p. 8.
  2. Perché rinunciare al piacere di citare la presentazione dell’editore: «L’arguta incursione di Dame Edith Sitwell nel mondo degli eccentrici inglesi è un magnifico tributo all’individualità. In un’epoca di conformismo, ecco una deliziosa opportunità per fare la conoscenza di personaggi stravaganti, donchisciotteschi, se non scervellati, che potevano permettersi di essere diversi. L’eccentricità è caratteristica particolare degli inglesi, dice Dame Edith in un ironico inciso, grazie a “quella peculiare e soddisfacente conoscenza dell’infallibilità che è segno distintivo e diritto di nascita della nazione britannica”. Eremiti, sportivi, ciarlatani, marinai, gli instancabili viaggiatori britannici, uomini di cultura, uomini di vita – e le signore, Dio le benedica – ecco una gloriosa galleria di estremi della natura umana ritratti da Dame Edith con tale arguzia, partecipazione, sapienza e amore da risultare irresistibile».
  3. Gordon Campbell, The Hermit in the Garden. From Imperial Rome to Ornamental Gnome, Oxford University Press 2013.

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Sollievo e carta velina

Circostanza forse voluta, forse no, sulle pagine 4 e 5 dell’«Osservatore romano» di ieri, 1° febbraio 2025, per la XXIX Giornata mondiale della vita consacrata, sono apparsi due articoli che, se così si può dire, volgono lo sguardo rispettivamente al monachesimo di domani e a quello di ieri.

Il primo è firmato dalla neo-Prefetta del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica s. Michela Brambilla1 e si concentra in particolare sul significato e sulla vitalità del carisma di «Ordini e Congregazioni, Società di vita apostolica, Istituti secolari, come pure Associazioni, Movimenti e Nuove Comunità». Non si può peraltro non sottolineare come «da qualunque prospettiva lo si voglia vedere, il momento storico c’è: per la prima volta in duemila anni una donna assume un ruolo di tale importanza all’interno della Curia vaticana, posizione in passato esclusivamente riservata a uomini»2. Infermiera e poi dottoressa in Psicologia, missionaria della Consolata (particolari nient’affatto secondari), s. Michela Brambilla è chiamata a dirigere un ente che supervede una galassia «di più di 800.000 religiosi e religiose, con le comunità femminili che rappresentano oltre due terzi».

La Prefetta sceglie di illustrare il concetto di «corpo carismatico», e le parole d’ordine odierne di sinodalità e di chiesa in movimento, con l’immagine usata dal papa, non nuovissima ma sempre efficace, dell’orchestra sinfonica. Il carisma non è un’istanza immobile, bensì qualcosa che deve fluire in ogni parte del «corpo»: «Nel “corpo carismatico” circola ciò che i membri immettono. Ogni nostro atto e parola, ogni nostro pensiero e sentimento è energia che percorre la fitta rete dei nostri rapporti, e arriva a interessare tutti, perché tutti siamo uniti in un solo corpo, irrorati dallo stesso sangue del carisma vivo. Nessuna parola, nessun gesto, nessun pensiero e sentimento sono neutri: ogni espressione vitale ha conseguenze, nel bene e nel male». Dunque un’orchestra in cui ogni strumento contribuisce col suo timbro, in cui ci sono parti soliste e parti d’insieme, in cui ogni musicista deve ascoltare gli altri e in cui un direttore ascolta più di tutti ed è al servizio dell’«esecuzione» generale. La metafora è, si diceva, efficace; se tuttavia la direttrice guiderà l’orchestra sulle partiture note dei «grandi classici», se spingerà talvolta verso i maestri del ’900, o se addirittura azzarderà qualche «prima esecuzione assoluta» la Prefetta, giustamente, per il momento, non dice.

Nel secondo articolo Flaminia Chizzola racconta di una conversazione con s. Francesca Battiloro, visitandina campana che ha appena festeggiato i 75 anni di professione religiosa3. È una voce che proviene da un altro tempo, si direbbe da un’altra dimensione, e che tuttavia non lascia indifferente nemmeno l’inveterato miscredente. Al di là della storia individuale assai singolare («Sono stata cresimata a 2 anni. A 6 ho fatto la prima comunione. A 8 sono entrata in monastero e a 16 anni ho fatto i voti solenni»), a colpire sono le parole dell’anziana monaca, praticamente immobilizzata e cieca e che ha trovato rifugio in una casa di riposo delle suore della Carità, dopo che il monastero di cui era superiora è stato chiuso («ma di questo la suora dalle mani di carta velina non vuole parlare»). Incalzata dalle domande della giornalista che vuole sapere della clausura e delle sue limitazioni, dell’obbedienza cieca, della passività, dell’anacronismo di certe prescrizioni, dell’accettazione a oltranza, s. Francesca risponde con «indistruttibile calma»: «“La clausura è clausura sempre. Bisogna chiedere il permesso a chi sta sopra”. E se quelli più in alto sbagliano? “Dio si serve di tutto, anche degli errori degli uomini per fare la Sua volontà”. Ma perché accettare tutto, anche gli errori? Perché dipendere sempre da qualcuno? “Tutti noi dipendiamo da Dio”. Da Dio, non dagli uomini. “La Chiesa è la sposa di Dio”. E se la sposa sbaglia? “La sposa fa sempre ciò che desidera lo sposo”. E se non lo fa? “Allora sarà lo Sposo ad agire, non noi”». Testimone sopravvissuta di una fede senza incertezze né delusioni e immutata nel tempo (anzi, fuori di esso), l’anziana monaca attende la fine con serenità («“Io accetto tutto dalle Sue mani”. Tutta questa sofferenza, questa solitudine, passar intere giornate senza parlare con nessuno? “Tutto è permesso da Lui e io mi fido del mio Sposo. Se non hai la fede non puoi andare avanti”») e il miscredente non può fare a meno di pensare, con una strana forma di umana partecipazione, che se avrà avuto «ragione» lei, sarà infine supremamente felice, se invece avrà avuto «torto», non ne avrà consapevolezza.

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  1. Michela Brambilla, mc, Laboratorio del «noi», «Osservatore romano» 1° febbraio 2025 pp. 4-5.
  2. Oltre i primati storici: il senso delle nomine al femminile di Francesco», in «Donne Chiesa Mondo», 141 (febbraio 2025), p. 4. «Alla nomina di Brambilla, Véronique Margron, religiosa delle domenicane della Carità della Presentazione e presidente della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia, in una intervista a “La Croix” ha detto che ha provato “sollievo”: “Era anormale che nessuna donna avesse questo livello di responsabilità in Vaticano”».
  3. Flaminia Chizzola, 75 anni di matrimonio con Gesù, «Osservatore romano» 1° febbraio 2025 p. 5.

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Le classifiche!

Per stemperare un po’ i toni dell’ultimo post, che era l’800° e che ha concluso una non programmata «striscia damianea», apro una breve parentesi «distensiva» di… classifiche di «cose monastiche» di cui ho almeno una vaga nozione. Tenendo conto che sono compilate a memoria, e che le mie conoscenze sono limitate, si giustificheranno le assenze anche clamorose.

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Top 10 – I monaci «preferiti» (forzando leggermente la definizione)

  1. Bernardo di Chiaravalle – Lo si potrebbe definire il «primo amore», quello da cui il mio interesse è partito.
  2. Benedetto da Norcia
  3. Pietro il Venerabile
  4. Romualdo
  5. Basilio di Cesarea
  6. Pacomio
  7. Gregorio di Nazianzo
  8. Gregorio di Nissa
  9. Pier Damiani
  10. Guglielmo di Saint-Thierry
  11. Aelredo di Rievaulx

Top 10 – Le monache «preferite»

  1. Teresa d’Avila – Forse la più grande di tutte (e di tutti), capaci di coprire tutto l’«arco costituzionale», dalla pura astrazione alla massima praticità.
  2. Chiara d’Assisi
  3. Catherine Mectilde de Bar
  4. Scolastica
  5. Caterina da Siena
  6. Caterina de’ Vigri, da Bologna
  7. Chiara da Montefalco
  8. Maria Maddalena de’ Pazzi
  9. Cristina l’Ammirabile
  10. Virginia Galilei

Top 5 – Gli Ordini

  1. Cistercensi
  2. Certosini
  3. Benedettini
  4. Camaldolesi
  5. Vallombrosani

Top 10 – I Padri e le Madri del deserto «preferiti»

  1. Abba Poemen
  2. Abba Pambo
  3. Abba Matoes
  4. Abba Sisoes
  5. Amma Teodora
  6. Abba Pafnuzio
  7. Amma Sincletica
  8. Abba Macario
  9. Abba Anub
  10. Abba Arsenio

Top 15 – I nomi più… «nomi»

  1. Odoranno di Sens
  2. Nalgodo di Cluny
  3. Poppone di Stavelot
  4. Otlone di Sant’Emmerano
  5. Facondino di Gualdo Tadino
  6. Braulione di Saragozza
  7. Smaragdo di Saint-Mihiel
  8. Incmaro di Reims
  9. Amalario di Metz
  10. Godescalco di Orbais
  11. Capreolo di Cartagine
  12. Gundlando di Saint-Riquier
  13. Marcardo di Prüm
  14. Leidrado di Lione
  15. Engelmodo di Soissons

Top 10 – Le abbazie che mi hanno colpito di più

  1. Abbaye de Lérins, Île Saint-Honorat (Cannes)
  2. Iona Abbey, Isle of Mull
  3. Abbaye du Mont-Saint-Michel (Normandia; come potrebbe non esserci…)
  4. Abbaye Notre-Dame de Sénanque, Abbaye de Silvacane e Abbaye du Thoronet (la grande triade delle «tre sorelle provenzali» che facciamo valere per una)
  5. Abbazia di Chiaravalle di Milano (anche per ragioni «sentimentali»)
  6. Colegiata de Santa Juliana, Santillana del Mar (Cantabria)
  7. Abbaye Saint-Pierre de Moissac (Occitania)
  8. Abbaye Saint-Wandrille de Fontenelle (Normandia)
  9. Monasterio de Santo Domingo de Silos (Burgos)
  10. Abbazia dei SS. Pietro e Andrea a Novalesa

Top 10 – I testi preferiti (del momento)

  1. La Regola di san Benedetto (per forza)
  2. Le Conversazioni con i Padri di Giovanni Cassiano
  3. I Detti e fatti dei Padri del deserto
  4. Le Regole lunghe e le Regole brevi di Basilio
  5. Le Lettere di Bernardo di Chiaravalle
  6. La Storia lausiaca di Palladio
  7. Gli Esempi e parole dei santi Padri teofori di Paolo Everghetinos
  8. Contro i pensieri malvagi di Evagrio Pontico
  9. Le Consuetudini della Chartreuse di Guigo I
  10. La Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx

Top 5 – I post più letti

  1. Francesco vs Benedetto
  2. «Sì, sono io che ti parlo» (Il «Colloquio interiore» di suor Maria della Trinità; pt. 3/3
  3. Tutti i Santi Monaci
  4. «Non occorre abitare in un monastero per vivere come un monaco»
  5. «Con le sue manj», il taglio dei capelli di Chiara d’Assisi

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Recenti acquisizioni

Piccola parentesi di librofilia (che è passione, o vizio, diversa, più rilassata della bibliofilia) per segnalare due «recenti acquisizioni» di grande soddisfazione.

ViaDominici Anzitutto la Via Dominici di Raimondo Spiazzi, op, autore a me già noto per le corpose e minuziose raccolte di memorie domenicane. Opera non recente (1961) la cui lettura tuttavia mi ha permesso un adeguato «ripasso domenicano», utile per definire, come dice il risvolto di copertina, «quale sia secondo la mente del Santo Fondatore, secondo la giusta Tradizione e secondo le attuali esigenze, la posizione del Frate Predicatore perché possa dirsi e chiamarsi veramente tale, fuori da ogni deviazionismo».

ViaDominici 3ViaDominici 2La singolarità dell’esemplare in mio possesso risiede nel fatto che, come si può vedere dall’ex-libris, si tratta della copia dell’Idea Centro Studi e Dibattiti, presso l’Angelicum di Roma, concessa in uso proprio all’autore. Autore che, in vista di un’eventuale ristampa, vi ha apportato di proprio pugno (con una stilografica) diverse correzioni, alcune delle quali di sorprendente dettaglio, in particolare nelle note per precisare i riferimenti di alcune citazioni, e che per segnalare la cosa ha scritto con una matita rossa sulla copertina «Copia corretta».

DirettorioAscetico 1 La seconda segnalazione è per i quattro volumi del Direttorio ascetico di Giovanni Battista Scaramelli, gesuita, nel rifacimento linguistico curato da Lorenzo Tognetti, anch’egli gesuita, nel 1943. L’opera, divisa in quattro trattati («Mezzi della perfezione cristiana», «Impedimenti alla perfezione cristiana», «Delle disposizioni prossime alla perfezione cristiana consistenti nelle virtù morali al grado perfetto», «Della perfezione essenziale del cristiano, consistente nelle virtù teologiche, specialmente nella carità»), «incontrò molte difficoltà da parte dei Revisori della Compagnia, i quali non ne approvarono la stampa, che avvenne nondimeno dopo la morte dello Scaramelli [nel 1752], per puro caso, e con tale consenso di lodi e di approvazioni da dimostrare quanto fossero eccessivi certi timori e quanto sicura invece fosse la dottrina». È un imponente manuale per il direttore spirituale, pieno di esempi, citazioni e riferimenti dalle Scritture e dai testi dei Padri della Chiesa, corredati punto per punto da «avvertimenti pratici al direttore» su come comportarsi, cosa suggerire, cosa dire e non dire. Il Tognetti avverte che il «rifacimento linguistico» si è concentrato esclusivamente sugli aspetti formali del testo, «per renderlo più comprensivo e accessibile a tutti», e le correzioni sono state fatte «allo scopo precipuo che niente venisse ad offendere o colpire la suscettibilità e la delicatezza dei lettori di oggi».

DirettorioAscetico 2Curiosamente, la copia in mio possesso (di cui, va detto, il bancarellaio era sin troppo palesemente contento di liberarsi: «Le faccio un prezzo speciale per tutti e quattro i volumi») proviene dalla biblioteca della Scuola materna dell’Istituto S. Giorgio di Pavia («fondato nel 1888 dalle Suore di Maria Bambina con l’iniziale intenzione di dare una educazione cristiana alle giovani ragazze che all’epoca vivevano nelle campagne circostanti il comune di Pavia»), con un timbro di proprietà che leggo come Ch. M. Debora Massani.

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L’altra guancia destra

Un’altra ignoranza, mia, sanata. «Porgi l’altra guancia»: l’altra (alteram) non è la sinistra, bensì l’altra destra. «Secondo i mistici», insegna la Glossa (in particolare la Catena aurea di san Tommaso, dal commento a Matteo di san Gerolamo), «quando viene colpita la nostra guancia destra, non ci viene comandato di offrire la sinistra, ma l’altra, cioè l’altra destra. Il giusto, infatti, non ha la sinistra».

Lezione appresa grazie a Giovanni Cassiano, che nella sedicesima delle sue Conversazioni con i padri, per bocca di abba Giuseppe, fa menzione di una categoria di monaci che manifestano un particolare genere di stoltezza «sotto le mentite spoglie della falsa pazienza»1. Costoro non si peritano di irritare i confratelli e «quando sono toccati anche solo lievemente, offrono prontamente anche l’altra parte del corpo per essere colpiti», credendo di mettere in pratica il precetto evangelico. E invece stravolgendolo completamente.

«Se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche l’altra – qui», precisa Giovanni Cassiano, «bisogna intendere senza dubbio l’espressione destra come “l’altra destra”, vale a dire il volto dell’uomo interiore»2, perché occorre partecipare intimamente, con umiltà, al dolore dell’uomo esteriore, abbandonandosi, corpo e anima, all’ingiuria e custodendo con umiltà la tranquillità del cuore.

Ecco perché – leggo da un’altra parte3 – Gesù davanti ad Anna non porse materialmente l’altra guancia quando un servo del sommo sacerdote gli mollò uno schiaffo. Il «divino Maestro» l’aveva già fatto, intimamente, «e ha voluto farci intendere che l’atto della virtù, in simili circostanze, non si deve confondere con l’atto esteriore di presentare l’altra guancia, ma bisogna cercarlo nella disposizione segreta dell’animo».

E i passivi-aggressivi (o almeno una loro variante) sono sistemati.

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  1. Giovanni Cassiano, Conversazioni con i padri, II, XVI, 20, a cura di R. Alciati, Paoline 2019, p. 961.
  2. II, XVI, 22, ivi p. 963.
  3. Jean de Monléon, I dodici gradi dell’umiltà. Commento ascetico al Capo VII della Regola di san Benedetto, traduzione dei monaci di S. Maria del Monte di Cesena, Edizioni Abbazia di Viboldone 1958, p. 146.

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«Ma ditemi un po’, signor abate». Sant’Anselmo e i giovani

Mentre cercavo di orientarmi (i.e. di capire qualcosa) nelle prove dell’esistenza di Dio di Anselmo d’Aosta, la mia guida, Sofia Vanni Rovighi, ha puntato il dito su un episodio della sua vita, come dice lei stessa, «degno di essere ricordato»1.

Anselmo è priore dell’abbazia benedettina di Bec, in Normandia, quindi siamo intorno al 1070, quando parlando con un abate in visita, «ritenuto molto pio», viene a discutere dell’educazione dei ragazzi (gli oblati) presenti nel chiostro. L’abate si lamenta: «Sono perversi e incorreggibili. Noi non cessiamo di frustarli giorno e notte, ma non fanno che peggiorare». Ah, non fate che frustarli? ribatte Anselmo. E quando crescono come diventano? chiede. «Stupidi e brutali», risponde l’abate. Ah, bel risultato, commenta Anselmo, da uomini che erano ne fate animali. «E noi che cosa possiamo fare?» insiste l’abate. «In tutti i modi li obblighiamo a migliorare, ma non otteniamo nulla.»

«Li obbligate?» Provocato, Anselmo risponde: «Ma ditemi un po’, signor abate [Dic quaeso michi domine abba]…» E attacca una tirata che dimostra a un tempo e la sua indignazione – assai precoce – di fronte a tale scempio e la sua visione positiva della natura umana. Gli oblati sono come piccoli alberelli piantati nell’orto della Chiesa, ma cosa succede se dopo aver piantato un albero lo comprimete da ogni parte, impedendogli di stendere i suoi rami? Crescerà storto, per forza. Allo stesso modo i ragazzi, senza poter godere di alcuno spazio di libertà, «oppressi in maniera scriteriata, accumulano, incrementano e nutrono pensieri perversi, che si attorcigliano in loro come spine»; e quel ch’è peggio, mentre crescono nel corpo, «maturano in loro anche l’odio e il sospetto della cattiveria dappertutto. […] E siccome sono stati cresciuti a non provare vero amore nei confronti di nessuno, non riescono a vedere nessuno, se non con sguardo accigliato e torvo».

«Perché siete loro così ostili?» Incalza Anselmo, e cambia immagine. Avete mai visto un orafo trasformare una lamina d’oro in un gioiello soltanto a martellate? Oltre alla severità occorrono anche «il conforto e l’aiuto di un’amorevole pietà e mansuetudine paterna». Qui l’abate tenta una sortita: «Ma quale conforto e quale aiuto? Ci diamo da fare per spingerli ad assumere comportamenti seri e maturi [graves et maturos mores]». Ma bene, ma bravi! riparte Anselmo. Come no, date del pane e del cibo solido a un neonato, vedrete se «più che esserne rifocillato, non ne sarà strozzato». L’anima, come il corpo, a seconda dell’età e della costituzione, ha bisogno di cibi differenti. L’«anima robusta» manda giù anche le cose più indigeste, l’«anima fragile… ha invece bisogno del latte, ossia della mitezza degli altri, della benignità, della misericordia, degli inviti gioiosi al bene… e di molte altre cose simili» (un paio di corsivi miei).

«Se vi adatterete in questo modo nei confronti di quelli che dipendono da voi», conclude Anselmo, «[…] li conquisterete tutti a Dio, per quanto dipende da voi.» La «tirata», lunga poco meno di cinquanta righe (fitte) a stampa, stende l’abate, letteralmente: costui infatti scoppia in lacrime e, «prostrandosi a terra, ai piedi di Anselmo, riconobbe di aver sbagliato e di essere colpevole».

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  1. L’episodio è narrato da Eadmero, nella Vita di sant’Anselmo, 1, XXII, che si può leggere in Eadmero e Giovanni di Salisbury, Vite di Anselmo d’Aosta, a cura di I. Biffi, A. Granata, S.M. Malaspina e C. Marabelli, con la collaborazione di A. Tombolini, Jaca Book 2009, pp. 67-71.

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Per chi verrà o per chi è assente (Guglielmo di Saint-Thierry e le mani)

Nel suo trattato sulla Natura del corpo e dell’anima, composto intorno al 1140, Guglielmo di Saint-Thierry, per illustrare il rapporto che intercorre tra la seconda e il primo, si dilunga sull’esempio delle mani. Che non sia, come si suol dire, «farina del suo sacco», ce lo ricorda lui stesso: «Devi sapere che quanto leggi non è mio. Io ho raccolto qui, in un solo scritto, passi tratti in parte da libri di filosofi e medici, in parte da libri di dottori della Chiesa». E in questo senso il trattato di Guglielmo1 è molto utile per avere un’idea dello stato delle conoscenze condivise sulla fisiologia del corpo umano alla metà del XII secolo. Per la parte dedicata all’anima, in cui si trova l’esempio delle mani (II, 66 e segg.), la fonte primaria è il De opificio hominis di Gregorio di Nissa, che Guglielmo legge nella traduzione latina di Giovanni Scoto Eriugena, il De imagine.

Il modo in cui l’animo, l’anima, la sostanza intellettuale, «si accosta» al corpo è beninteso «sovrarazionale e inintelligibile» e «non può essere detto né inteso», tuttavia si può dire che l’animo produca i suoi effetti come se stesse suonando uno strumento musicale, essendo tale strumento il corpo, le parti del quale sono quindi concepite perché possano essere «suonate» dall’anima.

Si prendano ad esempio, appunto, le mani, che sono una prerogativa esclusiva dell’essere umano: «Sono molte le funzioni, di pace o di guerra [corsivo mio], per le quali la natura ha costruito le mani, ma di esse ha dotato il corpo umano anzitutto per una precisa necessità della ragione» (ah, la tentazione odierna di dimenticare l’evoluzionismo per una mezz’oretta…). Se non le avessimo, dovremmo mangiare come i quadrupedi, «il collo dovrebbe allungarsi per raccogliere il cibo da terra, il naso si ridurrebbe come quello dei bruti, davanti alla bocca sporgerebbero labbra callose, pesanti, spesse, adatte a strappare l’erba, le parti carnose attorno ai denti sarebbero solide e dure, come nei cani e negli altri animali che si cibano di carne», e così non potremmo articolare la voce, ma beleremmo o muggiremmo, e così via. L’animo, che accoglie tramite i sensi tutte «le sensazioni che penetrano in lui da ogni parte» (e che lui «annota nella memoria»), e che nel suo intimo è muto, grazie alla voce può invece esprimersi, permettendoci anche di «conversare fra di noi» e di esercitare la ragione. Le mani hanno quindi sollevato la bocca da un incarico che l’avrebbe compromessa. Ma non solo.

Con le mani abbiamo potuto mettere a punto la scrittura, altro mezzo esclusivo di espressione. «Sia le mani sia la bocca servono dunque alla ragione. Le mani scrivendo per chi verrà o per chi è assente, la bocca formulando in parole con la massima facilità e prontezza tutto quello che la ragione suggerisce nell’interiorità.» Le labbra si aprono e si chiudono, come quelle di un suonatore di flauto, che grazie ai movimenti delle dita trae dal suo strumento una melodia: «In tal modo la natura umana articola le parole; la loro disposizione però è opera della ragione».

Sarebbe bello poter condividere la fiducia di Guglielmo.

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  1. Guglielmo di Saint-Thierry, La natura del corpo e dell’anima (De natura corporis et animae), a cura di A. Siclari, Nardini 1991.

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