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Terze, quarte, quinte e seste cose

 Tanto breve il saggio di Renata Rizzo Pavone e Anna Maria Iozzia, Comunità monastiche catanesi tra ’700 e ’800, quanto «gustoso». Letteralmente1. Le due studiose, già direttrici dell’Archivio di Stato di Catania, ed entrambe purtroppo scomparse, hanno infatti spulciato gli Ordinari di alcuni monasteri, in particolare quello benedettino di S. Nicolò l’Arena, con l’intento di ricostruire «il tipo di alimentazione in uso nelle comunità monastiche catanesi nei secoli XVIII e XIX».

Grazie alle serie consistenti e alla ricchezza delle indicazioni riportate circa la qualità dei cibi, la quantità e il numero dei confratelli presenti nel monastero le autrici hanno potuto definire con sorprendente dettaglio i comportamenti alimentari della comunità, a cominciare dai quattro schemi quotidiani prevalenti. Nei giorni «normali» il pranzo prevedeva: carne, minestra, antipasto, arrosto, frutta; la cena: minestra, pesce, «terza cosa», frutta e/o foglia. E già qui cominciano le sorprese, perché la quantità del piatto di carne che apriva il pranzo si aggirava intorno al mezzo chilo a testa, il piatto di pasta che lo seguiva era di circa 150 g, con l’aggiunta di ancora un po’ di carne, mentre l’antipasto, «pietanza abbastanza elaborata da collegare al tornagusto della cucina baronale, era assai vario». A quel «vario» segue un elenco rutilante, dal quale mi limito a segnalare le granatine, «polpette di carne dal volume inusitato», e la impanata «con pasta, lardo, salsiccia e soppressata». In ogni caso dopo c’è l’arrosto, cioè altra salsiccia e alla fine 150 g di frutta. A cena facciamo conoscenza con la «terza cosa» – dopo il primo e 200 g di pesce –, «pietanza molto varia, dolce o salata», ad esempio «ricotta, caciocavallo, pane fritto con uova… cavolo bastardo con alici… caponata con asparagi… sciroppata di mele… pasta siringata, pasta cotta nel mosto…». Il lunedì si riduce un po’ la carne a favore delle uova e nei giorni di astinenza dalla carne largo al pesce! Durante la Quaresima e l’Avvento, in cui la carne scompare quasi del tutto si fa avanti invece una «quarta cosa» (crispelle di riso il lunedì, lenticchie il martedì, pasta fritta il mercoledì…). A pranzo, ad esempio: pesce, minestra, seconda minestra, «quarta cosa», frutta o verdura; mentre a cena: minestra, colazione, sopratavola, là dove la colazione è un piatto di pesce e il sopratavola un po’ di pasta.

«Nei giorni di festa il pranzo si arricchiva in misura proporzionale all’importanza attribuita alla festa stessa», una frase che dà il la a una serie incredibile di prelibatezze e al dilagare dei dolci, serviti nelle grandi occasioni come «quinta cosa» (fagioli, passola [uva senza semi] e castagne), e come «sesta cosa» (gelo di cannella). Tra l’altro nel recepire le novità gastronomiche i benedettini sono sempre all’avanguardia, si nota infatti via via «un’esigenza di maggior ricercatezza ed elaborazione nella preparazione dei cibi, che troverà piena realizzazione agli inizi dell’800», grazie anche all’influenza della cucina francese importata dai cuochi delle famiglie nobili. Ed ecco comparire nei registri «riso in cagnò, barrachiglie di riso e caciocavallo, cutumè di riso o ricotta, sorcicelli di pasta brugnè con caciocavallo e piacentino, gnocchi alla tedesca…» Gli elenchi sono sempre affascinanti e in queste pagine ce ne sono tanti e meravigliosi. (Si vedano i dolci delle monache: «Cannoletti a base di riso, uova e latte, biscotti di mandorle ricoperti di “liffia” (glassa di cioccolata), “mostazzole” [biscotti di sottile sfoglia di farina roccella farciti con mandorle e nocciole abbrustolite, noci, buccia d’arancia legate con vino cotto e miele], cassate di ricotta per Pasqua, “fastucata” [dolce a base di pistacchi legati da zucchero vanigliato e spolverati con cannella], “combaita” e dolce bianco».)

Meno dettagliati i registri degli altri ordini, ma in generale domenicani, carmelitani, minori e minimi paiono un po’ più sobri, sia nella quantità sia nella quantità, ma fino a un certo punto se si considera che «il quantitativo giornaliero di carne pro capite per i carmelitani si aggirava intorno a g. 300 per pietanza e antipasto». I minimi in coda a tutti avevano «un regime alimentare basato essenzialmente su pane, pasta, vegetali e pesce» – pesce di qualità –, ma ogni tanto facevano festa anche loro e «notevolissimo era infine il consumo di “scacciu”, cioè frutta secca, come nocciole, mandorle e noci, che durante la “conversazione” si accompagnava al vino».

E le prescrizioni della Regola? Al capo XXXIX il padre Benedetto dice: «Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza. Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c’è un solo pasto, che quando c’è pranzo e cena. In quest’ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena». Ma, per usare le parole di Federico De Roberto, «questa era una delle tante “antichità” – come le chiamava fra’ Carmelo – della Regola. Potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro?»

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  1. Il saggio, del 1995, è stato ristampato in Renata Rizzo Pavone e Anna Maria Iozzia, La cucina dei benedettini a Catania, introduzione di G. Giarrizzo, con uno scritto di A. Leonardi, Giuseppe Maimone Editore 2000, pp. 21-53.

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Via Benedicti

LaViaDiBenedetto La via di Benedetto di Monica Della Volpe1 è un testo nato da una viva esperienza di lectio all’interno della comunità del monastero trappista di Valserena («Non sono considerazioni astratte: tale è stata la nostra esperienza, riflettendo sulla quale abbiamo raccolto queste considerazioni, e abbiamo meglio capito l’esperienza stessa»), cioè, si potrebbe dire, di «interrogazione» della Regola, letta in parallelo con la Vita di Benedetto di Gregorio Magno, con l’intenzione di evidenziare la diretta dipendenza di quello che, in fondo, è un «testo giuridico» dalla biografia di chi l’ha scritto: «È evidente che san Gregorio ha compreso il valore della via benedettina per l’uomo del suo tempo, e lo ha spiegato, secondo uno stile di racconto sapienziale allora chiarissimo per il cristiano comune, oggi più difficile da interpretare».

È un testo estremamente «utile» e molto consigliabile a chiunque sia interessato ad ascoltare una voce autorevole del monachesimo contemporaneo, a capire come una badessa emerita di grande esperienza vede, pensa e rappresenta la propria forma di vita («Più che il parafulmine della Chiesa, la vita monastica deve essere il serbatoio della Chiesa, da dove poi, per vie a noi stessi ignote – ma in parte anche note – si dirami la sua segreta fecondità apostolica», il corsivo è mio), ma c’è un altro aspetto che mi ha colpito di più e in parte distratto nella lettura. In tutto il testo, infatti, si dipana, sottile ma solidissimo, un filo polemico nei confronti del cosiddetto relativismo contemporaneo, dell’«uomo relativista del XXI secolo che si annida in tutti noi» (neanche fosse lo sporco che appunto si annida negli angoli della casa e nelle fibre degli indumenti…) e una rivendicazione della «superiorità» del sapere divino rispetto al sapere mondano.

Già il giovanissimo Benedetto dimostra di avere la capacità – il carisma – di discernere tra vero e falso, tra bene e male (un aspetto «fondamentale anche nella Regola e in tutta la tradizione monastica»), quando abbandona Roma per cercare altrove la verità, «una sapienza più grande», e «sulla base di questo rifiuto Benedetto (Dio tramite Benedetto) fonderà una nuova scuola di Sapienza, diverrà padre della cultura europea, di tutto ciò che di buono, di tutto l’immenso tesoro che la civiltà europea ha prodotto», l’allibito corsivo è mio). E per ottenere questa nuova, vera, sapienza «è indispensabile rifiutare il mondo, cioè la sua visione della vita», fuggire la gloria e la vanagloria, non vivere per l’ammirazione, la lode altrui, non soccombere al culto di se stessi, «smettere di vivere costantemente sotto gli occhi degli altri, per iniziare a vivere sotto lo sguardo di Dio». Possiamo dire che c’è una punta di manicheismo in questa posizione? Come se il mondo fosse stato storicamente e sia un’entità unica e immutabile, caratterizzata da un’altrettanto immutabile visione della vita; come se una comunità orientata al bene comune non potesse per principio trovare proprio nello «sguardo degli altri» uno strumento positivo di comportamento. «Il problema vero, ai tempi di Benedetto come ai nostri, è quello di ben pensare per ben fare e non peccare. Di distinguere il bene dal male e il vero dal falso, di scoprire la Sapienza vera e di respingere quella falsa», certo, ma è saggio tagliar fuori da quest’opera di discernimento chi, sempre per così dire, non rifiuta il mondo, senza per questo accettarne le storture?

Quanto sia degna di rispetto e considerazione la via di Benedetto, cioè la via di Gesù, cioè «la quotidiana rinuncia a noi stessi per vivere come dono», non credo di aver bisogno di ripeterlo. Quanto l’egocentrismo sia responsabile di errori e sofferenze si sa. Quanto sia decisiva l’umiltà, questo «pensiero nuovo» che è «l’unico atteggiamento veramente ragionevole della mente umana», è assodato. Ma nelle parole della badessa emerita, prive anche del più piccolo residuo di dubbio, ancora una volta pare che l’alternativa alla «Verità con la V maiuscola», quella che l’essere umano può ricevere solo da Dio, ci sia il caos, lo scatenamento degli istinti più bassi, la guerra delle «voglie» (quasi fossero uccelli rapaci svolazzanti), la dittatura dell’io che divora tutto – mettere l’io al centro produrrà «una visione che non corrisponde a verità e inevitabilmente tenterà di violentare la realtà in un modo o nell’altro»: sì, certo, mettendo l’io al centro, ma mettendo il noi? Un noi storico, multiforme, immanente, faticoso?

«Non sprecheremo qui parole», scrive m. Della Volpe, «per dimostrare che l’uomo che non cerca la Verità e non cerca Dio, lungi dal raggiungere una più grande comunione con gli altri uomini, si rinchiude in se stesso, nell’individualismo o nella disperazione, e tende in questo modo a perdere le sue più genuine caratteristiche umane. La cosa è sotto gli occhi di tutti coloro che sono capaci di vedere».

Forse non sarebbero state sprecate, poiché, evidentemente, non sono capace di vedere. Pace.

(1-segue, forse)

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  1. Monica Della Volpe, La via di Benedetto. Dalla Vita alla Regola, prefazione di G. Meiattini, osb, presentazione di M.F. Righi, ocso, Nerbini 2022 (Quaderni di Valserena; 12).

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Anime semplici o che tendono a ritrovare la semplicità

CercareDioNellaSuaParola «Ogni relazione con Dio si basa su un diligente ascolto», afferma il benedettino Guy-Marie Oury (1929-2000, professo a Solesmes) nella prima pagina del suo libro sulla lectio divina1, ed è anzitutto nella Sacra Scrittura «che si può incontrare meglio Dio e ciò che egli ha detto di se stesso».

Per il monaco – il monaco di tutti i tempi, come d. Oury mostra nell’excursus storico cui dedica uno dei capitoli del libro – la lectio divina è la pratica fondamentale di accesso alla Bibbia: pratica di ascolto, durante l’ufficio; di lettura, ancora durante l’ufficio e nel tempo personale; di «meditazione incessante», che si «intromette» in tutte le sue occupazioni.

Ruminatio, masticatio, manducatio – tutti termini che si riferiscono alla pratica della lectio e che rimandano a un processo di ingestione, digestione e nutrimento: «La Lectio è dunque una refezione spirituale dell’anima nel suo cammino verso Dio». Studio e preghiera vi sono intimamente collegati, perché non è mai un’attività per così dire «oggettiva» (tutto quello che Dio ha detto «ci riguarda personalmente»), è anche uno strumento, un «luogo» di trasformazione, che per essere tale ha bisogno di essere liberato dalla pressione continua degli impegni materiali, dalle distrazioni («la distractio è la causa di tutti gli abbattimenti del monaco»), dal fiume di immagini che provengono dal mondo, dal desiderio di sapere «mille cose inutili».

La lectio si può estendere, e di fatto si è estesa, anche oltre la Bibbia, alle opere ascetiche, ai trattati sulla preghiera, alle memorie autobiografiche, ai libri di meditazione e naturalmente alle agiografie: «Si pensi al beneficio che hanno ricavato le anime semplici – e i monaci sono anime semplici o che tendono a ritrovare la semplicità», dalle raccolte di miracoli e dalle vite dei santi.

Al di là dei pochi aspetti evidenziati qui, a differenza della esaustiva trattazione di d. Oury, che esplora gli aspetti storici, pratici, dottrinali, teologici, ecc., sono molte le… lezioni della lectio che possono tornare utili per non rimanere confinati in una delle funzioni oggi consuete della lettura: informazione, studio, svago e consolazione. La continuità, anzitutto, il contenimento della distrazione, l’ascolto, l’atteggiamento discente, la meditazione e l’abitudine di porre domande – le proprie domande – al testo che si legge. Anche qui, insomma, mi pare ci sia «qualcosa» che sarebbe insensato scartare sulla base di un pregiudizio. Se la lectio nasce con la qualifica di divina, credo si possa provare a cambiare quell’aggettivo così carico di «problemi» e tentare di definire una lectio humana. Che poi, quando leggo del rapporto che monaci e monache hanno con la Bibbia, e attraverso di essa con Dio, mi viene da dire che la lectio, a occhi contemporanei, può quasi sembrare un prototipo della psicoanalisi: stesi sul lettino della Sacra Scrittura, a leggere/parlare di sé con un Analista che non si vede, parla davvero poco, ma ascolta tutto. In fondo, quando d. Oury dice che è nella Bibbia «che si può incontrare meglio Dio e ciò che egli ha detto di se stesso», aggiunge anche: «È qui che si può meglio vedere, come in uno specchio, ciò che gli uomini… sono e devono essere».

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  1. Guy-Marie Oury, Cercare Dio nella sua parola. La Lectio divina, presentazione di A.M. Cànopi, traduzione di L. Zardi, Edizioni Paoline 1987.

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«La causa unica di tutte le miserie di cui soffre il mondo»

DodiciGradiUmiltà La copia in mio possesso del Commento ascetico al capo VII della Regola di san Benedetto del benedettino Jean de Monléon1 è datata 1958 ed è consumata dall’uso di tanti ignoti lettori che mi hanno preceduto. Religiosi e religiose, presumo. Ed è questo il motivo per cui ho letto un’opera che mi sento di definire in larga misura «superata», per quanto improprio sia l’uso del concetto di «superato» nel caso della letteratura monastica: nulla è mai del tutto «superato» come si può dire di un trattato di fisica della fine dell’800. L’ho letta perché innumerevoli persone si sono identificate con il pensiero che vi è espresso, vi hanno per così dire sinceramente creduto. Superata, in realtà, è forse dir poco; di certo pre-conciliare (ma è stata ristampata nel 2021, e non a caso dalle Edizioni Piane, la casa editrice della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata da mons, Lefevre) e percorsa da un evidente tratto antimodernista (nonché punteggiata da qualche osservazione vagamente antisemita e razzista).

DodiciGradiUmiltàB La scelta di commentare non la Regola nella sua interezza, bensì un solo capitolo, quello dedicato all’umiltà, il più lungo, è sintomatica. Se infatti, teologicamente, l’umiltà è preceduta da altre virtù, «nell’ordine pratico questa virtù è la prima perché… rimuove quell’ostacolo che con la sua presenza arresta la grazia di Dio», cioè l’orgoglio, «causa unica di tutte le miserie di cui soffre il mondo e anche il principio di tutti i nostri traviamenti». Da qui, il Commento discende e al tempo stesso ascende i dodici gradini dell’umiltà (suddivisi secondo lo schema che riporto qui a fianco) con un tono prevalente di ferrea durezza che mi pare alieno dallo spirito con il quale san Benedetto ha steso la sua Regola. Già, «perché la nostra vita religiosa non è affatto una bella strada carrozzabile che permette di salire comodamente verso la perfezione in una vettura ben molleggiata; è invece un sentiero ripido, stretto, scabroso, nel quale si va avanti solo aiutandosi con le mani e con i piedi».

È un vero tour-de-force, del quale si può dare solo qualche esempio e dal quale si esce, per usare un’espressione dell’autore, «piallati, raschiati, modellati e lisciati». Noi, che dimentichiamo che siamo delle creature effimere, inette, cui il demonio ronza continuamente intorno, capaci di una varietà di peccati quasi infinita, negligenti, accecati, incapaci di sorvegliare i desideri cattivi che salgono dal fondo più oscuro della nostra natura (peraltro guasta); pronti a scaricare la responsabilità delle nostre colpe (è stato il caso, la sfortuna, il vento, il demonio, il gatto) e ad assolverci con la scusa del così-fan-tutti (state ben attenti che il Signore ha detto: «Io sono la verità», e non: «Io sono la consuetudine»); che inseguiamo fantasie, frivolezze, oscenità; che ridiamo e facciamo ridere, che ci guardiamo intorno facendo entrare di tutto attraverso gli occhi; che ci sbagliamo in continuazione…2

E invece dovremmo rifuggire dall’uomo vano, che si lascia trascinare dal movimento spontaneo della sua natura; dovremmo calpestare incessantemente la nostra volontà con l’obbedienza, l’unico mezzo per riparare il peccato di Adamo (anche perché Dio non ci domanderà conto delle azioni fatte per obbedienza [e già…]); dovremmo accettare le ingiurie, le sofferenze, le prove, spogliandoci del mantello delle illusioni di cui ci rivestiamo, estinguendo il prurito della singolarità, il desiderio di farsi centro… e d’attirare sopra di sé l’attenzione degli altri3; basta con tutto questo «io», che se è odioso perfino in letteratura, quanto più lo sarà presso coloro che pretendono cercare la perfezione!; dobbiamo fonderci nello stampo della Regola e purificarci con la forma di penitenza più grande ed efficace, la vita in comune.

Giobbe tra i primi metteva in guardia l’uomo vano che si crede libero «come il puledro dell’asino selvatico»: perché l’asino selvatico, si chiede d. Monléon? Perché non è come quello domestico, condannato a tirare il carretto e portare il basto, no, lui nasce libero, «niente lo ostacola, niente lo trattiene… nessuno gli impedisce di seguire i movimenti della sua natura; può galoppare in pianura, ruzzolarsi nell’erba, correre all’impazzata con i suoi simili, mangiare, bere, dormire come meglio gli sembra. [Allo stesso modo l’uomo vano] non considera la vita che come un prato fiorito dove gli è permesso di correre e divertirsi secondo l’attrattiva del momento».

Be’, anzitutto, chi ha mai detto che la vita sia un prato fiorito; e poi, ammettiamolo, mica male qualche giorno seguendo la routine dell’asino selvatico, no?

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  1. Jean de Monléon, I dodici gradi dell’umiltà. Commento ascetico al capo VII della Regola di san Benedetto, traduzione dei monaci di S. Maria del Monte di Cesena, Edizioni Abbazia di Viboldone 1958.
  2. «La nostra memoria non è stata fedele, la nostra logica ha zoppicato, il nostro ragionamento ha trascurato dei dati importanti, la nostra immaginazione soprattutto, e le nostre passioni, hanno deformato, a nostra insaputa, ciò che pretendevamo, con molta buona fede, aver visto o inteso.»
  3. «Questo difetto lo ereditiamo dalla nostra madre Eva, di cui la primissima deviazione, nel Paradiso terrestre, fu probabilmente il piacere che provò nel vedere che il serpente si interessava di lei.»

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«Datemi anche solo un’ora di tempo» (le Meditationes piissimae)

MeditationesPiissimae Sono contento quando iniziative editoriali mi consentono di leggere opere, oggi etichettabili come «oscure», ma che in altri tempi non lo erano affatto, essendo state anzi assai diffuse e molto lette, tanto da conquistare un’altra etichetta, quella ad esempio di «classico della spiritualità medievale». È il caso delle Pie meditazioni sulla conoscenza della condizione umana1, operetta («tractatulus») di ambiente monastico, benedettino, databile tra il 1160 e il 1190. Spesso attribuite in passato a Bernardo di Chiaravalle, le Meditazioni vantano una ricca tradizione manoscritta di circa 250 esemplari (che le presentano da sole o in compagnia di altre opere), cui sono seguite numerose edizioni a stampa, nonché traduzioni in francese, tedesco, italiano, portoghese, fiammingo, ungherese, danese, svedese e islandese. «Oggi, forse, il testo», osserva la curatrice Milvia Fioroni (si noti quel «forse»), «non è più al centro delle pubblicazioni, ma questo tipo di letteratura si trasferisce dal campo della spiritualità a quello della ricerca storica.» Be’, forse, non è esattamente così, o meglio, è senz’altro così, ma non solo.

Le Meditazioni sono state di frequente associate al genere del «disprezzo del mondo» (de contemptu mundi) e sono molti i passaggi che lo giustificano. L’anonimo monaco ripassa con esplicita incisività il classico repertorio, con una particolare sottolineatura del sottogenere del «disprezzo di sé» (de contemptu sui). E quindi: considera, uomo, che non sei «nient’altro che schiuma divenuta carne», carne che, «per quanto sia adornata, è sempre carne», destinata a essere «verme e cibo per i vermi»; considera ciò che fuoriesce dai «passaggi del corpo» e ti renderai conto «di non aver mai visto un immondezzaio più spregevole», e così via tra ondate di orrore e fetore…

Ma, pur nel naturale contesto di un discorso che si sviluppa intorno al peccato, al pentimento, alla confessione e al giudizio (e alla beatitudine o alla dannazione), queste Meditazioni sono prodighe di immagini, paragoni e metafore di natura per così dire psicologica, e sono queste osservazioni, date in un linguaggio diretto e realistico, e per lo più in prima persona, che mi fanno dire ancora una volta che non si tratta, forse, di un testo di interesse esclusivamente specialistico

Ecco ad esempio una scena dialogata di rimorso, in cui l’anima, memore di tutti i suoi misfatti, viene trascinata davanti al Giudice e «incomincia a tremare, chiede di poter fuggire e di avere una tregua, dicendo: “Datemi anche solo un’ora di tempo”. E però, come se le opere acquisissero la capacità di parlare [dicono]: “Tu ci hai compiute, siamo opere tue, non ti abbandoneremo, ma saremo sempre con te, ti seguiremo fino al giudizio”». Ecco l’importanza dell’esame quotidiano di se stessi («Ritorna, dunque, a te stesso e – se non sempre o spesso – almeno qualche volta»), perché niente «è contrario a me, se non io stesso». Ecco l’attenzione che bisogna prestare alla propria instabilità che può ritorcersi contro, poiché il cuore «gira velocemente come un mulino e non rifiuta niente, ma macina tutto ciò che gli viene dato; se non viene aggiunto nient’altro, consuma se stesso». Ecco le autogiustificazioni sempre pronte, le ipocrisie («Dico queste cose e non le faccio»), le pose («Ho finto di essere chi non ero»), le scuse che ci rendono egoisti («Qualcuno mi aspetta desiderando parlare con me di una sua necessità: io prendo un qualsiasi libro, che altri vorrebbero avere. Lo leggo e, leggendolo, perdo il frutto della carità»), le cattiverie che per vergogna non confessiamo («Il mio cuore trama in un solo momento ciò che tutti gli uomini insieme potrebbero realizzare in un anno»), e così via tra ondate di impazienza e miserie.

«Se non osservo attentamente me stesso», dice l’Anonimo, «non mi conosco; se invece mi osservo attentamente, non posso sopportarmi», e non solo, perché «ognuno rimane in qualche modo sconosciuto a se stesso» (ricordiamo, 1175 o giù di lì). Lui, l’Anonimo, e quelli come lui potevano, e possono, contare sul Padre misericordioso che tutto conosce, almeno Lui, e tutto è disposto a perdonare. Ma quelli che non sono come lui, su chi, su cosa, possono contare?

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  1. Anonimo del XII secolo, Meditationes piissimae de cognitione humanae conditionis. Il cammino dell’uomo verso Dio, introduzione traduzione e note di M. Fioroni, Edizioni Glossa 2023.

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Non te la prendere

Una delle qualità della Regola di san Benedetto che mi ha sempre colpito è che non intimorisce chiunque le si avvicini, da qualsiasi prospettiva lo faccia e qualunque sia la preparazione teologica, storica, linguistica, ecc., di chi la legge. La sua perfetta, e al tempo stesso «semplice», dimensione atemporale rende inoltre molto interessante la questione della traduzione. Certo, la si può leggere abbastanza facilmente nell’originale latino, ma mi sono chiesto spesso come san Benedetto scriverebbe certe cose oggi (con ogni probabilità in italiano).

Sicché prendiamo, ad esempio, la radice trist*, che nella Regola compare dieci volte. Due nella forma di tristitia, che non presenta particolari problemi: la «tristezza» del fratello scomunicato (XXVII, 3), che può essere eccessiva e che non deve sommergerlo (Benedetto cita qui san Paolo), e la tristezza (il «malumore») di chi è gravato da un servizio di cucina che supera le sue forze (XXXV, 3) e che va anch’essa prevenuta.

Le altre otto volte compare nella forma del verbo contristare, tre delle quali in accezione transitiva: in due casi il cellerario (XXXI, 6, 7) non deve rattristare o irritare i confratelli con il suo comportamento (le sue scelte); nel terzo caso sono i malati (XXXVI, 4) che non devono affliggere chi si prende cura di loro con eccessive pretese.

La forma più frequente è dunque il verbo riflessivo contristari, con cinque occorrenze, una delle quali è riferita nientemeno che a Dio (Prol., 5), cui non dobbiamo dare motivo  di adirarsi con le nostre cattive azioni. In genere (il che significa: nelle traduzioni che ho potuto vedere) contristari viene reso con un ragionevole rattristarsi, oppure con dolersene, trarne motivo di malcontento, stare di malanimo e anche lamentarsi. Ma c’è una traduzione che secondo me restituisce alla perfezione sia il senso che il tono e penso che sarebbe la forma che oggi Benedetto userebbe. È la soluzione colloquiale, diretta, «parlata» adottata da Giovanni Bellardi nella sua traduzione pubblicata da Jaca Book nel 1975 (che mi è già capitato di citare), e cioè: prendersela.

«Chi ha minori esigenze [e quindi riceve di meno] ringrazi Dio e non se la prenda» (XXXIV, 3); «Se poi le particolari esigenze del luogo o della povertà costringeranno i fratelli a raccogliere personalmente i frutti della terra [cioè a lavorare con fatica], non se la prendano, perché allora sono davvero monaci se vivono del lavoro delle proprie mani» (XLVIII, 7). E anche là dove Bellardi opta per malcontento e dolersene, la soluzione colloquiale si prestava ugualmente bene: «La distribuzione e la richiesta di quanto è necessario siano fatte nelle ore prescritte, perché nella casa di Dio nessuno si turbi o se la prenda» (XXXI, 19); «Senza che per questo [che l’abate abbia destinato a un altro il dono ricevuto] il fratello, cui la cosa era stata inviata, se la prenda» (LIV, 4).

A me pare che questa sia una traduzione veramente «benedettina»: sia perché nel concetto di prendersela è implicita una sfumatura di auto-riferimento (di egoismo), che si scontra con l’umiltà; sia perché in esso sono presenti il risentimento e l’invidia (una punta), che credo fossero due veleni che san Benedetto volesse tenere assolutamente lontani dal monastero; e sia anche perché mi sembra di sentirlo, l’abate Benedetto, che a un confratello seccato perché il paio di calze di lana che ha ricevuto dai famigliari è stato poi dato a un altro, risponde pacato: «Non te la prendere, lo sai che ne aveva più bisogno di te».

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Il secondo posto

Rivolgendosi agli educatori benedettini, suoi confratelli, riuniti in conferenza internazionale, Michael Casey, trappista dell’abbazia di Tarrawarra, in Australia, sceglie due parole chiave per articolare il suo discorso: onore e umiltà1. Due parole tratte dalla «tradizione benedettina» che, per il monaco australiano, «più che un vocabolario specializzato o un codice di condotta, per quanto ammirevole, è la trasmissione della vita», la dimensione del passaggio da persona a persona essendo al centro stesso di tale complesso di concetti, regole, atteggiamenti e scopi. «La tradizione separatamente dalle persone non può essere imbottigliata e conservata, essa è elettrica: la scintilla salta da una persona all’altra.»

La riflessione dedicata all’onore prende spunto da una «ingiunzione» che san Benedetto include nell’elenco degli strumenti delle buone opere, tanto veloce da passare quasi inosservata: «Onorare tutte le persone [gli uomini]» (Regola, 4, 8). Cosa significa qui «onorare»? Secondo Casey onorare un altro «significa essere pronti a prendere il secondo posto in sua presenza, significa dargli spazio per occupare lo spazio disponibile, fare un passo indietro per permettergli di crescere, diminuire affinché egli possa aumentare»; e l’interpretazione di quello «spazio» è potenzialmente illimitata: lo spazio del discorso, lo spazio nei propri pensieri, desideri e opinioni, sul marciapiede, sul mezzo pubblico, nel proprio paese e nel proprio Paese, nel mondo. Onorare tutti, badando in special modo ai «deboli» e agli «immeritevoli»; «trattare tutti con uguale onore significa trattare tutti in modo diverso», perché nessuno è intercambiabile. Nessun monaco lo è per il suo abate, e qui, come ovunque dovrebbe, l’onore prende il posto dell’autorità assoluta: «Questo è, credo», dice Casey, «un elemento cruciale della nozione benedettina di autorità: non è principalmente una struttura di comando, ma qualcosa di più sottile che implica l’espressione esplicita e frequente delle credenze e dei valori che incarnano l’identità della comunità, in modo che possano essere assorbiti e assimilati dai monaci.» Onore a tutti, attenzione alla diversità, espressione esplicita e frequente, offerta di spazio – un compito eccelso, di cui so di non essere capace.

La trattazione dell’umiltà è ancora più delicata perché «sono state scritte», esordisce Casey, «così tante sciocchezze sull’umiltà nel corso degli anni che sento una certa riluttanza nell’usare questo termine». Due sono i punti controintuitivi da cui muove il monaco trappista: anzitutto l’umiltà non è una virtù, in secondo luogo è una qualità essenzialmente interiore e a sé riferita. L’umiltà apre la strada a una «forma di esistenza… meno tossica» grazie al riconoscimento di una realtà più grande (e trascendente) di noi. Ed è significativo che Casey proponga una specie di «aggiornamento» dell’umiltà rispetto al modello proposto da s. Benedetto («il modo in cui l’umiltà era espressa in quella cultura può non essere rilevante per noi; può persino essere in qualche modo ripugnante»), un aggiornamento non meno benedettino nello spirito. L’umiltà benedettina del XXI secolo è: a) solidarietà con i nostri simili, con i quali condividiamo tutto, in particolare la debolezza e la contraddittorietà; b) ammirazione della grandezza («Vivere alla presenza di Dio è una garanzia per sviluppare un apprezzamento realistico della propria posizione relativa nell’universo. Ammirare è uscire da se stessi», dice il rabbino capo della Gran Bretgna Jonathan Sacks, citato da Casey2); c) apprezzamento di quello che abbiamo ricevuto, come individui e come comunità. Again, un altro compito giusto di cui so di non essere capace.

Seguendo questi spunti, conclude Michael Casey rivolgendosi agli educatori, ma in fondo non solo, «la tradizione benedettina viene portata nel presente, con una nuova e vibrante espressione, e trasmessa alla prossima generazione. Possiamo ancora assistere a una nuova fioritura dell’amore delle lettere e del desiderio di Dio. E questo felice risultato, mi sembra, è nelle vostre mani.» Proprio una responsabilità da niente.

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  1. Michael Casey, Educazione benedettina: due parole, intervento alla Conferenza internazionale degli educatori benedettini, Sydney, ottobre 2019; in «Vita Nostra» 21 (2021, 2), pp. 23-39.
  2. Che così commenta: «Sappiamo quando siamo stati in presenza di qualcuno in cui respira la presenza divina. Ci sentiamo affermati, ampliati, e a ragione, perché abbiamo incontrato qualcuno che, non prendendosi affatto sul serio, ci ha mostrato cosa significa prendere con la massima serietà ciò che non è Io».

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«Noi facciamo le tipografe». In margine a un volume dedicato a Margherita Marchi

MargheritaMarchiA un primo livello la lettura dello splendido volume dedicato a Margherita Marchi1, la «madre fondatrice» della comunità di benedettine che nel maggio del 1941 prese infine dimora stabile nell’abbazia di Viboldone, nei pressi di San Giuliano Milanese, è un’immersione nella proverbiale «miniera di informazioni»: sulla vita e sulla formazione di m. Marchi, sull’imponente fondo epistolare della medesima, sulle vicissitudini della comunità, dei suoi rapporti con la Chiesa e della sua posizione nel contesto generale, sulle figure di ecclesiastici che la avvicinarono, la accompagnarono, la sostennero, sulla composizione della comunità originaria. Va da sé che ne ricorderò assai poche, di tali informazioni, ma la traccia, per così dire, è lasciata, con forza, stile e qualità, e si potrà sempre tornare al volume, che per fortuna esiste, per verifiche e ripassi molto più agevolmente che tramite ricerche d’archivio.

A un secondo livello si staglia la figura di una donna di fede (Bologna, 6 giugno 1901 – Viboldone, 5 gennaio 1956) divisa tra azione e contemplazione, con tutti i problemi contingenti derivanti dall’epoca, e animata comunque da un desiderio di libertà, di «una libertà cristiana, di una libertà liberata», per usare le parole di Fulvio De Giorgi, che della m. Marchi traccia un esauriente profilo spirituale; una libertà che rappresenta il «nucleo essenziale e permanente tanto di una personalità energica e vitale quanto di un’esistenza per la maggior parte dei suoi anni scandita in semplicità dalla preghiera, dal lavoro e dall’umiltà silenziosa del chiostro». Una libertà cristiana che si traduce in un essere a disposizione: delle cose e delle circostanze, degli altri e, naturalmente, di Dio. «Bisogna dimenticarsi», scrive Margherita Marchi, non ancora professa, in una lettera che risale al 1923, «non a parole ma con i fatti: vivendo per gli altri e negli altri cercando il Signore, fissarLo e non togliersi da quella contemplazione per nessuna ragione. Non bisogna ricordarsi di sé neppure per disprezzarsi» (È questo, sia detto tra parentesi, uno dei punti di maggior «difficoltà» sui quali ritorno in queste note, questa declinazione di libertà di spirito, «dono imprezzabile», ampiamente diffusa e che «consiste principalmente nell’indifferenza e prontezza di fare in ogni cosa quello che si conosce essere volontà di Dio», per citare mons. Giulio Belvederi, che di m. Marchi fu primo «padre spirituale» e primo confidente e primo compagno d’azione. Quello che si conosce essere volontà di Dio – su espressioni come questa inciampo sempre, nella mia incapacità, della quale non riesco del tutto a incolparmi, a cogliervi un qualsivoglia contenuto di realtà. E già che ci siamo, un altro punto di difficoltà, sul quale dovrò tornare, sta in quel dimenticarsi: qui sono per così dire a casa, poiché ci si può dimenticare soltanto di ciò che si ricorda più che bene. La tipica rivolta contro l’ingombrante presenza dell’io è anzitutto segno della sua presenza, quanto più virulenta la prima, tanto più notevole la seconda.)

C’è poi un terzo livello, che so essere marginale rispetto al quadro complessivo che il volume traccia, ma che talvolta è quello che suscita il mio maggiore interesse. Si tratta di dettagli, battute estratte da lettere o da altri documenti d’archivio, piccole annotazioni, scelte lessicali curiose, minuzie che rimandano alle persone in carne e ossa, alle loro esistenze quotidiane, e le restituiscono con un’evidenza che almeno per un istante vince il tempo. Il volume ne è pieno e ne riporto solo qualche piccolo esempio. Madre Marchi che racconta a un’amica delle sue prime esperienze di maestra, in una colonia: «Ho i bambini di Imola, 40 maschietti tutt’altro che docili e di sentimenti tutt’altro che buoni. Sono quasi tutti di famiglie comuniste e questo ti basti» (corsivo dell’autrice)2. La di lei diffidenza per «qualsiasi esercizio di mortificazione, di virtù rigida, acrobatica – lasciamelo dire – sotto la quale c’è sempre il vuoto» (idem). La sorpresa che s. Giovanna Maria Scalabrini, fida consorella della madre, prova davanti a «innumerevoli cianfrusaglie devozionali» trovate in un altro monastero. Il bacio dell’anello da parte delle consorelle, «gesto che ripeto centinaia di volte in un giorno», come ricordato da m. Maria Ignazia Angelini, che di Viboldone sarà poi badessa e che a m. Marchi dedica un saggio di notevole esegesi, centrato sull’idea di un monachesimo «materno» e comunionale. «Ha scritto molto la Madre, e spesso a lungo: quattro, sei facciate di foglio, vergate con grafia chiara, elegante, ordinata.» «Sono un povero moscerino, oscuro, dolorante, ma su di esso, di tratto in tratto, si posa la Luce» (e «Luce» fu l’ultima parola di Margherita Marchi sul letto di morte). Tre righe per suor Armida Brucchietti (1913-1997): «A Viboldone venne assegnata alla tipografia, e poi, finché le forze la sorressero, alla sartoria; si occupò anche del pollaio. Monaca battagliera e obbediente». Suor Maria Pia Garabuggio, infermiera e devotissima alla Madre, e da lei chiamata «il mio primario». Suor Giovanna Maria Scalabrini, che «di tutti gli eventi vissuti dalla comunità… tenne meticolosamente nota, su pezzettini di carta divenuti proverbiali». I «curriculum» delle consorelle, da una sede all’altra prima dell’approdo a Viboldone («confezione arredi sacri… maestra di lavoro, lavoro di ricamo… infermiera e dispensiera… maestra di casa, lavoro nell’amministrazione, nell’orto, nel giardino e nella cura del bestiame da cortile… infermiera, organista, lezioni private, maestra di casa, scuola di canto alle ragazze del paese, lavoro di ricamo»). Certo, il lavoro, perché la comunità deve sostentarsi e come dice ancora m. Margherita Marchi: «Se le vestali ci fossero ora, dovrebbero fare le commesse di negozio per potersi dedicare a mantenere il fuoco sacro. Noi facciamo le tipografe per conservare la possibilità di dedicarci alla preghiera».

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  1. Margherita Marchi (1901-1956) e le origini delle Benedettine di Viboldone, saggi e ricerche nel 50° della morte, a cura di M. Tagliabue, Vita e Pensiero 2007.
  2. Autrice che in un’altra nota si riferisce al monastero di Viboldone come «isola situata in uno stagno di comunismo».

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«A regola d’arte», di Maria Ignazia Angelini (pt. 2/2)

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(la prima parte è qui)

Nelle regole monastiche è possibile, secondo m. Angelini1, ritrovare quei tratti primari che precedono lo stesso ambito monastico e indicano la strada verso quella regola di vita che sarebbe compito di ognuno tracciare. Compito di tutti, perché ognuno deve muovere dalla certezza della propria «singolarità immensamente preziosa», pur nella consapevolezza di aver bisogno dell’aiuto «di chi ha vissuto prima la medesima ricerca» (eccolo, il grande fiume dell’umanità).

Anzitutto la lettura della Parola, del Vangelo nel più ampio contesto della Bibbia, perché «quando si arriva con la paziente frequentazione del testo a comprendere la medesima paziente logica che pian piano conduce dal caos di Genesi 1, 2 al “Tutto è compiuto” del Verbo annientato nel Dono dello Spirito (Giovanni 19, 30), allora non può rimanere nascosto il filo che si dipana nella propria vita, lo stile, la misura» (ho messo il corsivo per sottolineare il fatto che: può, eccome se può!). Questa lettura è anche e soprattutto salmodia, canto e preghiera individuale e comunitaria.

Il secondo elemento è la concezione della vita come prova, come – per citare la bellissima espressione usata dalla badessa – «obbedienza alle cose patite», il che comporta quindi la verifica, cioè l’esame di coscienza. Il terzo elemento è la regolarità dell’esistenza, la scansione dei tempi, il ritmo, per evitare l’impulsività dei desideri scomposti e degli sprazzi interiori: lo sbando. Il quarto elemento è l’incontro con gli altri, da cui deriva il legame, la comprensione, la misericordia, l’amore persino per il proprio nemico. Ancora, la cura del corpo, che nasce dalla conoscenza delle sue debolezze e non dall’ansia per le sue possibili prestazioni. E ancora, il tempo vuoto: non quello della noia, bensì quello della contemplazione.

«Ma alla base di tutto questo…» avverte m. Angelini, «sta il legame con Dio… L’uomo è come un recipiente fatto per essere colmato [e quindi, posso aggiungere?, irrimediabilmente svuotato]. Il profondo dell’uomo è fatto per Dio e soltanto per Dio. Se non ci rendiamo conto che l’obiettivo principale è Dio, nel quale immergerci grazie alla parola chiave dell’amore, del Tu, non capiamo chi siamo e dove andiamo». Temo di dover obiettare: non possiamo credere di capire chi siamo né dove andiamo; anzi, non possiamo sperare di essere qualcosa e di andare da qualche parte. Ed è giocoforza ricordare proprio il Salmo 39, citato dalla badessa: «Solo un soffio è l’uomo vivente e io che posso attendere, Signore? È in te la mia speranza»: speranza, appunto.

Ammiro molto, se così posso esprimermi, quelli che m. Angelini chiama «i grandi “qui c’è Dio”. I punti di reperimento di un ordine per la vita, e di una misura»: la Parola, i sacramenti, la coscienza, l’altro, inseriti nella catena delle generazioni. Contesto, semmai, l’osservazione che l’altro campo, rispetto a questo, non possa essere che quello dello spontaneismo, del «come viene», il quale, tra l’altro, sarebbe sorretto «da un’occulta, accorta strategia di marketing» che monetizzerebbe il nostro essere «indisciplinato, disordinato, superficiale per natura» (quanti problemi in quel per natura).

Bisogna fare della vita la propria vita, dice m. Angelini, trovare il modo di essere vivi fino alla morte. Compito forse davvero impossibile senza fede, speranza e carità. Ma come assolvere a un compito per il quale non si possiedono gli strumenti? È ancora un compito? È, invece, una maledizione, una condanna?

(2-fine)

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  1. Maria Ignazia Angelini, A regola d’arte. Appunti per un cammino spirituale, Città Nuova 2017.

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«A regola d’arte», di Maria Ignazia Angelini (pt. 1/2)

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Molto interessanti, come sempre, le parole di Maria Ignazia Angelini, cristiana, monaca benedettina (badessa), filosofa, per quanto lontano possa considerarmi dalla sua prospettiva1. A cominciare dalla lettura completamente negativa che lei dà della cosiddetta postmodernità come luogo in cui l’uomo è «buttato in un orizzonte di complessità irriducibile».

In questo luogo, in questa condizione di assoluta vulnerabilità all’assalto dei «pensieri» (cui seguendo m. Angelini potremmo dare anche il nome di passioni narcisistiche, di «patologie della libertà», se non di «vizi»), la sapienza monastica può proporre «una strada di umanizzazione fondata sull’invenzione di una misura, di una regola, di un passo, di uno stile, di un metodo: un’arte di vivere, a partire dalla custodia del cuore». Nella sua essenza la regola, uno dei fondamenti della comunità monastica, si sveste di qualsiasi pretesa normativo-giuridica e tecnico-pratica e si pone come esigenza decisiva per tutti, più ancora forse per i laici che per gli stessi religiosi, come «un modo di esistere umanamente, un modo di essere in relazione, un modo di stare al mondo». Questo «modo», che sarà il risultato provvisorio di una continua ricerca, sarà personale e comunitario insieme, e sarà responsoriale, cioè tentativo di risposta a una chiamata, che al di là del tradizionale concetto di vocazione sarà quella che ogni essere umano può avvertire se guarda nel profondo di se stesso: la chiamata all’essere e all’amore, da parte di tutti coloro che ci hanno preceduti, di Dio stesso.

È evidente come la dimensione entro la quale questo (mi perdonerà la badessa se lo chiamo) racconto assume un valore di realtà sia quella della fede: «Alla radice sta l’esperienza di fede», sottolinea infatti m. Angelini, «io esisto come risposta, io conosco e realizzo me stesso ricevendomi da Altri.» Al di fuori di tale dimensione… (Questo è un punto fondamentale: l’esistenza di questo «al di fuori della fede» che vorrei tanto venisse riconosciuto dagli «spiriti più avvertiti» del campo cristiano, e non soltanto descritto come terreno di insensato scontro di biglie impazzite totalmente autoriferite e «autoaffermantisi»…2) Al di fuori di tale dimensione, dicevo, la «domanda antropologica fondamentale» potrebbe non essere necessariamente: «Chi sono io?», bensì un altro grande classico, e cioè: «Che fare?»3. Prospettiva che consentirebbe comunque, tra l’altro, il recupero del metodo e della regola, seppur da altre premesse.

Tornando tuttavia all’ascolto della badessa, m. Angelini ci, e mi, ricorda che «siamo in un cosmo e non in un caos. Anche se il caos persiste nel minacciare il cosmo», e fondamento originario di tale cosmo è che «siamo preceduti, pensati, voluti per un disegno di amore universale. C’è un disegno che ci lega ad altri mentre ci singolarizza», la Parola che dice, che indica questo disegno essendo il Vangelo, e la Persona che pronuncia questa Parola essendo Gesù. È Gesù che colma l’abisso tra le creature e ciò che le trascende, che ridisegna il mondo, «e ogni regola di vita ha il compito di cercare di portarne una pur pallida impronta nella concreta vita personale». La regola, quella monastica nelle sue successive declinazioni, come quella personale nei suoi ininterrotti tentativi, sarà dunque «il testo che riassume un’esperienza viva della fede» e che la trasmette, come una parabola. E se guardiamo alla regola monastica, ad esempio a quella benedettina, vedremo che i suoi contenuti, le sue raccomandazioni non hanno nulla di «specificamente monastico»: valgono per tutti i credenti, quando non per ogni individuo. «Questo carattere rappresenta un importantissimo messaggio indiretto: i monaci sono persone umane, anzitutto. E questo non può essere mai messo tra parentesi; non saranno mai monaci cristiani senza al tempo stesso vivere secondo tutte le esigenze della comune umanità».

Le esigenze della comune umanità: che piattaforma contrattuale problematica…

(1-segue)

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  1. Maria Ignazia Angelini, A regola d’arte. Appunti per un cammino spirituale, Città Nuova 2017.
  2. O, per usare una delle tante potenti immagini del testo, «un agglomerato di piscine da cui si entra e si esce passando da un tempo all’altro».
  3. Laddove è forse proprio lo «svuotamento» definitivo dell’io, la sua definitiva frammentazione, smantellamento e abbandono a rappresentare una strada, forse, promettente.

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