Sarebbe meglio (Il disprezzo del mondo di Ugo di San Vittore)

 Si fa presto a dire «disprezzo del mondo». E si fa presto a pensare che si tratti di un tema ricorrente della letteratura monastica, si direbbe connaturato a essa, che nel tempo si sia fossilizzato fino a diventare uno «standard» che, pur con variazioni di stile, sia stato eseguito sempre più o meno nella stessa maniera: «Si è pensato al contemptus mundi come a un fenomeno caratterizzato da una omogeneità tematica tanto forte da giustificare l’ipotesi di una certa povertà d’ispirazione, di una mancanza di «impegno» che rivelerebbe un compiaciuto indulgere a un luogo comune. Di qui il disinteresse per i vari trattati sul disprezzo del mondo, che si limiterebbero a ripetere monotonamente alcuni determinati clichés, una serie di motivi consunti dalla tradizione». Il libro di Francesco Lazzari1 aiuta a dissipare l’errore, e lo fa, dopo un’accurata ricognizione delle opere in questione: oltre milleduecento anni di disprezzo, dalla prima compiuta teorizzazione di sant’Ambrogio (De fuga saeculi) alle esauste propaggini seicentesche, concentrandosi sugli autori della Scuola (dell’abbazia parigina) di San Vittore, i mai troppo considerati «vittorini», in particolare Ugo (m. 1141) e il suo allievo Riccardo (m. 1173), tra i massimi protagonisti di quella che l’autore chiama «la grande fioritura del XII secolo» e che raggiunse il suo culmine con l’«esasperata violenza» del famoso De miseria humanae conditionis di Lotario di Segni, poi Innocenzo III2.

La miseria della condizione umana: secondo alcuni interpreti, come ricorda l’autore, questa dottrina che stabilisce l’antagonismo tra cielo e terra sarebbe «alle radici stesse del cristianesimo» e quindi «sarebbe responsabile, almeno in parte, del dramma dell’epoca moderna in Occidente». Il Lazzari non aderisce a tale visione e sostiene che il contemptus mundi «è aspirazione a Dio, desiderio di purezza, ma non per questo chiusura totale di fronte alla “società”. […] l’atteggiamento negativo di rifiuto non vi si dissocia mai da una volontà positiva di trasformazione del mondo». Non è altresì un atteggiamento astratto e disincarnato, bensì una posizione di rottura col mondo che «contrasta con l’ingenuo sentimento di fusione in cui vive l’uomo che è perso nella banalità del quotidiano». È l’esperienza di un individuo, per esprimere la quale ha sì a disposizione un ventaglio di cliché, ma che non esclude il proprio accento personale diverso da autore ad autore.

Nel De vanitate mundi di Ugo, ad esempio, il disprezzo è esortazione alla scoperta dell’autentico slancio della condizione umana che non può esaurirsi nell’orizzonte terreno. «Ugo dimostra chiaramente di amare la vita e di saperne apprezzare gli aspetti positivi», ma è oppresso dalla caducità, dalla transitorietà di tutto ciò che possiamo amare – persone e cose – e dall’angoscia che ne deriva: «Il contemptus nasce dal confronto tra il desiderio umano e l’incapacità delle cose ad appagarlo, tra l’aspirazione alla felicità e lo spietato rifiuto del mondo». Non resta, pertanto, che estirpare il desiderio (qui, tra l’altro, il Lazzari ricorda l’osservazione di Jaspers che stabiliva un parallelo «tra alcune posizioni del contemptus mundi medievale e il nucleo essenziale della Weltanschauung buddistica»).

«Sarebbe meglio», dice un po’ sottovoce Ugo, «che nessuno dei viventi morisse piuttosto che nascesse qualcuno destinato a sopravvivere a chi muore», un’affermazione che ha fatto dire a uno studioso tedesco che pare che «in queste parole sia racchiusa una tragica insoddisfazione per l’opera creatrice di Dio». E ancora: «Le forme delle cose visibili sono foglie [Si sta come d’autunno…]; che all’inizio sembrano belle e verdi, ma cadono all’improvviso quando arriva la tempesta». Bisogna però notare, avverte il Lazzari, che «dal tono sconsolato della considerazione sull’inevitabilità della morte, trapela quell’amore della vita che è l’elemento fondamentale del De vanitate mundi: «Sopportiamo qualunque rimedio del nostro dolore, ma non pensiamo che in esso risieda la gioia della felicità».

Perché il disprezzo per Ugo non è fine a se stesso, bensì strumento per raggiungerla, questa benedetta felicità; il contemptus mundi è infatti la premessa necessaria dell’amor Dei, in cui il tempo si annulla, e soprattutto si annullerà («L’instabilità degli istanti che compongono il tempo è la prova più eloquente della sua mancanza di valore»), e l’essere trova, e soprattutto troverà la sua stabilità e infine la sua pace3.

Se transeunte è ciò che l’uomo ha, non meno di ciò che egli è, Ugo, e il tempo è dolore, forse possiamo accontentarci anche del suo annullamento.

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  1. Francesco Lazzari, Il contemptus mundi nella Scuola di S. Vittore, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli, 1965.
  2. Che, detto tra parentesi, è uno dei testi che mi ha sospinto verso le «cose monastiche».
  3. «Il significato del contemptus mundi nella dottrina di Ugo non è dunque l’isolamento per l’egoistico scopo di una salvezza di sé che abbandoni tutto il mondo alla nullità e alla perdizione. È un riscatto di cui l’uomo solo può decidere, ma che tocca ogni essere, mira a salvare la bellezza di ogni vita, rendendola nel suo essere per Dio libera da ogni strumentalità rispetto al desiderio umano.»

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