C’era un anziano monaco scetiota – ho imparato che scetiota è l’aggettivo di Scete, località del deserto egiziano dove si «coagulò» una delle comunità monastiche primitive, e non ho resistito alla tentazione di usarlo… Dunque, l’anziano monaco, «molto zelante nelle fatiche del corpo, ma non acuto nei pensieri», era afflitto da un problema assai comprensibile anche oggi: la dimenticanza. Allora va da abba Giovanni per chiedergli consiglio. Lo ascolta con attenzione, ringrazia, torna nella sua cella e… non si ricorda più niente. Uffa. Rivà, riascolta («le stesse parole»), ritorna: daccapo, niente. Eh, ma che diamine. Ci riprova ancora, e ancora, e ancora, «ma, mentre ritornava indietro cadeva vittima della dimenticanza». Okay, non c’è niente da fare, non posso andare ancora dall’abba… Qualche tempo dopo, si direbbe una sera, l’anziano incontra per caso l’abba e gli confessa: «Sai padre, che ho dimenticato ancora quello che mi hai detto? Ma, per non disturbarti, non sono venuto». Ma no, non dovevi, gli risponde Giovanni, e sai perché? Allora lo manda a prendere una lucerna e gli dice di accenderla. Poi lo manda a prenderne altre, gli dice di accenderle tutte con la prima e infine gli chiede: «È forse diminuita la luce della prima lucerna perché da quella hai acceso le altre?» No di certo! Ecco, spiega l’abba, «nemmeno Giovanni; anche se tutta Scete venisse da me, non mi sarebbe di ostacolo alla grazia di Cristo; perciò vieni quando vuoi, senza esitare».
So che non c’è alcun bisogno di ri-raccontare i detti dei Padri del deserto, la cui essenzialità rasenta la perfezione narrativa, ma credo che la tentazione (e due) di farlo derivi da quella eccezionale combinazione di storicità e astoricità che li caratterizza: si legge una storiella di due anziani un po’ bizzarri, sperduti in un deserto inospitale, e al tempo stesso (ci) si racconta una circostanza immutata della nostra condizione.
E così, anche senza «scomodare il trascendente», viene fuori la comprensione dei propri limiti (se anche non si vogliono chiamare mancanze o imperfezioni); l’umiltà di riconoscere di avere bisogno di consiglio (da notare che a chiederlo non è un giovane a un anziano, ma un anziano a un coetaneo: si chiede a chi sa, non c’entra l’età); la disponibilità a darlo (e la responsabilità che questo comporta); il tatto di non voler gravare oltre misura il prossimo con i propri difetti; la pazienza e la comprensione (e l’intelligenza di escogitare l’esempio perfetto – la luce che non si consuma – per fugare i sensi di colpa dell’altro); la condivisione a oltranza della conoscenza («anche se tutta Scete venisse da me», detto da un anacoreta che si era ritirato in solitudine!); la gentilezza dell’invito di un amico («vieni quando vuoi, senza esitare»).
Il commento dell’anonimo estensore del «detto» ricontestualizza, per così dire, la storia e ne ricava l’esemplarità, senza spegnerne il brillìo: «Questo è il compito di monaci di Scete, dare coraggio a coloro che sono tentati e fare violenza a se stessi, per guadagnarsi reciprocamente al bene».
♦ Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova (1990) 20085, pp. 236 (Giovanni Nano, 18).
