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Contraddizioni, rumori e odori

Il mio interesse per le «cose monastiche» preesisteva a queste note vagamente e teoricamente pubbliche e continuerà dopo la loro fine. È un interesse come un altro? È mera evasione in un mondo di carta più presentabile di quello popolato da draghi e maghi? È un’altra manovra del ben noto programma di idealizzazione di sé?

O è, invece, un «gesto magico», come quello dei pellegrini di Santiago che toccavano la testa scolpita del maestro Mateo nella speranza che un po’ della sua sapienza e del suo talento si trasferisse a loro? Sarebbe bello se fosse così. Sarebbe bello se fosse almeno un’aspirazione a quella «correzione dei difetti» di cui parla san Benedetto nel Prologo della sua Regola.

La domanda mi si è riproposta mentre leggevo l’articolo del vescovo-monaco Erik Varden, sull’«attualità» della Regola e sull’utilità di andare, oggi, «a lezione da san Benedetto»1, che prende avvio proprio dal famoso Prologo e dal concetto di «scuola del servizio del Signore». Secondo Varden «la schola di cui parla Benedetto è un luogo in cui si impartisce la conoscenza, certo; ma ancor più essenzialmente è un luogo di iniziativa in cui si crea qualcosa di nuovo. Questo qualcosa è un modello innovativo di comunità che riunisce liberamente degli uomini per mezzo di un patto di vita e un obiettivo chiaro».

Per illustrare tale modello, anzitutto Varden richiama l’attenzione per contrasto sulle tre categorie di monaci (cioè di persone?) in qualche modo opposte a quella dei cenobiti; tre categorie che rimandano a riconoscibili modi di esistenza contemporanea: gli eremiti, che, provati alla scuola comunitaria, si ritirano in solitudine, dove il cimento si fa ancor più arduo, con tutti i rischi che ciò comporta (forse soprattutto di autocompiacimento); i sarabaiti, che «hanno come unica legge l’appagamento delle proprie passioni» e che «incontriamo normalmente nella vita di tutti i giorni»; i girovaghi, che non si fermano mai da nessuna parte, girano in tondo e non concludono niente, «e anche qui riconosciamo una tipologia di persona diffusa nel nostro tempo, dove si dispiega un movimento circolare destinato a un non-arrivo, non solo nello spazio materiale o entro i confini intricati della mente umana, ma nelle vaste e aride distese di internet».

In opposizione a ciò nella scuola di comunità, tra i cenobiti, si impara a conoscersi, a perseverare, a non disperdersi, a moderare appetiti e voglie, a placare la rabbia, a perdonare e a essere pazienti, e tutto questo insieme. Più che impararlo, infatti, ce lo si insegna. La correzione dei difetti, per fare un esempio e per tornare a essa, è infatti un programma che può essere soltanto collettivo, da svolgere nell’ambito di quella comunità che «libera l’uomo dalle illusioni sull’umanità e su sé stesso e gli insegna ad affrontare l’umanità nella sua complessità, con le sue contraddizioni interiori ed esteriori, i suoi rumori e odori, e con la sua capacità di grandezza. Invece di sognare tediosamente un “popolo” teorico, impara, attraverso la battaglia, ad amare le persone così come sono».

A questo punto Varden sviluppa il gioco di parole anticipato dal titolo del suo articolo, in base al quale la schola Dei, di Dio, benedettina può diventare una schola DEI, dedita alla diversità, all’equità (che non è sovrapponibile all’eguaglianza) e all’inclusione: tre concetti aggiornatissimi e dai risvolti eminentemente pratici centrali nella Regola, compresa a loro eventuale degenerazione. Ma per il momento mi accontenterei di non dimenticare che qualsiasi programma di correzione, da opporre al dilagare della ininterrotta assoluzione di sé, e per non essere una «pia illusione» o una storiella che ci si racconta prima di addormentarsi, ha sempre bisogno di altri, contraddizioni, rumori e odori compresi.

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  1. Erik Varden, Schola Dei o schola DEI? A lezione da san Benedetto, in «Vita e Pensiero», CVIII, 3, maggio-giugno 2025, pp. 57-68.

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Quando funziona (Dice il monaco, CXXXII)

Dice Erik Varden, monaco cistercense, già abate del monastero trappista di Mount Saint Bernard, in Inghilterra, dal 2020 vescovo di Trondheim, in Norvegia:

Chiunque abbia modo di vedere una comunità monastica procedere verso la chiesa per celebrare il vespro resta colpito dalla sua uniformità. I monaci indossano gli stessi abiti, tengono lo stesso passo, replicano gli stessi gesti e, idealmente, cantano intonati. Ma chi conosce una comunità in prima persona, tuttavia, è colpito dalla sua varietà, spesso francamente improbabile. C’è qualcosa nella vita monastica che, quando questa funziona, libera il carattere. Per anni ho riflettuto su una cosa che Ingmar Bergman una volta disse dei suoi film: l’elaborazione di materiale complesso richiede rigore della forma. La vita monastica offre a coloro che sono chiamati a viverla una struttura formativa che consente alla personalità di prosperare.

♦ Erik Varden, Schola Dei o schola DEI? A lezione da san Benedetto, in «Vita e Pensiero», CVIII, 3, maggio-giugno 2025, pp. 57-68.

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Schedine: Giorgio La Pira; Erik Varden

Giorgio La Pira, Lettere al Carmelo, a cura di D. Pieraccioni, prefazioni di B. Maggioni, Vita e Pensiero 19872. «Noi che siamo “fuori” pensiamo sempre con soavità infinita agli orti conclusi ove la grazia del Signore fiorisce soave e pura!» Così scrive Giorgio La Pira, nel gennaio del 1948, in una lettera a suor Teresina (Virginia Sardi) del Carmelo di Santa Maria degli Angeli di Firenze. Le «lettere alle claustrali» sono un sottogenere epistolare di lunga tradizione che cerco di frequentare ogni volta che se ne presenta l’occasione, anche se i carteggi pubblicati sono quasi sempre monchi delle lettere «in uscita» dai chiostri; e anche se non di rado capita di imbattersi in quel singolare fenomeno per il quale chi sta «fuori» ritiene di poter spiegare a chi sta «dentro» i motivi riposti della loro scelta: voi siete questo, voi rappresentate quest’altro, il senso della vostra esperienza è questo, ecc. Confesso di aver fatto un po’ di fatica a leggere queste Lettere al Carmelo, e non tanto per il tipo di rapporto, forse un po’ datato, quanto per il tono sempre troppo acceso dell’uomo politico. Mi è parso infatti che La Pira spesso lanci i suoi appelli, rivendichi la sua ideale appartenenza, ribadisca la sua adesione a colpi di punti esclamativi, come se sentisse di dover espiare il suo impegno nel mondo, la sua attività politica: «Talvolta – spesso! – anche l’anima nostra cerca i suoi “carmeli”: spesso ci portiamo con lo spirito in queste isole di purità, in questi orti sigillati, in queste mistiche case di purità e sostiamo ristorati e fortificati» Oppure: «Mi sentirò figlio di tutti i Carmeli, di tutte le Certose, di tutte le Trappe: e nel silenzio della preghiera mi sentirò unito alla soave salmodia comune!». Ho fatto fatica per il linguaggio usato, per i modi retorici, ma non ho mancato di riconoscere le tracce di un atteggiamento dal quale, pur in forme che non potrebbero esser più diverse, non sono del tutto esente. I sentimenti di La Pira sono, al di là delle forme, di indubitabile sincerità, e i miei?

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Erik Varden, La solitudine spezzata. Sulla memoria cristiana, Qiqajon-Comunità di Bose 2019. Il libro raccoglie sei meditazioni dell’ex abate dell’abbazia trappista di Mount Saint Bernard, nel Leicestershire, da poco nominato vescovo della diocesi di Trondheim. Il testo è strutturato «intorno a sei comandi biblici di ricordare» e ogni capitolo sviluppa una particolare sfumatura cristiana del concetto di memoria, e della sua pratica, a partire da una «situazione» o da un personaggio tratti dalla Scrittura: ad esempio il monito rivolto ad Adamo circa la polvere, o meglio la «terra», da cui proviene; o l’appello di Mosè a Israele affinché non dimentichi la schiavitù; o ancora l’avvertimento di Gesù di ricordarsi della moglie di Lot. Accanto a questi spunti, sviscerati in profondità, l’autore convoca una galleria di testimoni che per me ha rappresentato il motivo di maggior interesse del volume, da san Benedetto a Stig Dagerman, da Maria Egiziaca al padre Sergij di Tolstoj, da Maïti Girtanner (eroina della resistenza francese) a Motovilov… non si finisce mai d’imparare. Si può anche dire che non si finisca mai di ricordare, e la Bibbia può essere uno strumento fecondissimo per questo esercizio: «Il nostro ricordare non è mai confinato alla sola esperienza, limitata o ampia che sia. Noi scopriamo – se osiamo – che la memoria è più che un’acqua stagnante di ricordi privati. Ricordare, ricordare veramente, è levare i nostri ormeggi e salpare verso il mare aperto, con tutto ciò che comporta come pericolo ed euforia».

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Cardiochirurgia (Dice il monaco, LXIV)

Dice Erik Varden, ocso, già abate dell’abbazia di Mount St Bernard (Leicestershire), ora vescovo di Trondheim (Norvegia), nel 2018:

Essere monaco è abitare un universo senza limiti. È essere spinti verso un’altezza e una profondità, una lughezza e una larghezza che toccano l’infinito. Se vissuta sinceramente, la vita monastica è un habitat di trasformazione. I padri descrivono come il cuore del monaco venga frantumato, poi aperto e, poco alla volta, risanato. Esso inizia a farsi più ampio, al punto da contenere il mondo intero, richiamando alla mente la sua piaga davanti a Dio, ricordando al mondo la grazia di Dio. Il cuore del monaco, conforme a quello di Cristo, è un luogo d’incontro. Esso tende verso l’alto nella più fiduciosa delle gioie, perché è stata messa alla prova. La gioia che spesso mi sfuggiva quando ero giovane mi è data adesso: è allo stesso tempo conosciuta e nuova. Vedo ancora l’oscurità, come potrei non vederla? Ma ha perso il suo fascino, so che è stata attraversata.

♦ Erik Varden, La solitudine spezzata. Sulla memoria cristiana, traduzione di L. Gobbi e T. Pizzimenti, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2019.

 

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