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Fazzoletti, spezie odorifere e vaghi colori (Voci, 35)

SpecchioDellaDisciplina Cap. X. Che non si devono avere cose curiose.

Appresso ti esorto che non ti curi di tenere nella tua stanza cose curiose, come sono immagini adorne, tavole, fazzoletti, coronette polite e preziose, e cose simili; né dèi riceverle, né darle altrui in dono, perché simili traffichi e negozi occupano il cuore, e dispiacciono a’ nostri maestri, come quelli che ti fanno parere tra gli altri notabile e singolare; e ancora ti aggravano la coscienza di alcuna proprietà, conciossiaché tali cosette spesse fiate incautamente si ricevono, o si danno senza licenza de’ Superiori, sia per increscimento, o per rispetto, o per vergogna di ricorrere così spesso per sì picciole cose da’ Maestri.

Non dèi tenere appresso di te spezie odorifere per condire i cibi, eccetto se per evidente necessità tu non potessi lasciarle: e chi potesse vivere privo di tutte le cose particolari, sarebbe felice, perché avrebbe tolta via la materia di gran distrazione: far di avere quanto più pochi bisogni è possibile, o se pur ti bisogna tenere alcuna cosa privata, come sono libri, per cagione di studio, e cose appartenenti allo scrivere, non ne tenere mai alcuna soverchia o curiosa, ma sii contento di aver solamente cose necessarie in numero ed in valore.

Similmente il tuo abito, e le altre cose che comunemente ti bisognano e tieni per tuo uso, sieno semplici e rozze; e così anche i gesti del corpo e tutte le cose, che fuori di te sono manifeste, fa che sieno schiette, facili e pure, in modo che tu non desideri, né procuri di aver cosa veruna linda, né curiosa, né di alcun singolare o vago colore tinta.

♦ San Bonaventura, Istruzioni a’ novizi, II, X, in Specchio della disciplina. Istruzione e Regola de’ novizi. Con alcuni salutevoli ricordi del ben vivere, terza edizione, Quaracchi, presso Firenze, Tipografia del Collegio di S. Bonaventura, 1891, pp. 264-65. (Chissà quale può essere la «evidente necessità» di tenere nella cella delle spezie…)

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Un sasso in bocca

Già da due anni Ministro generale dei Frati Minori, intorno al 1259 Bonaventura da Bagnoregio redige un breve trattato sulla «perfezione della vita», indirizzandolo probabilmente a Isabella di Francia, figlia di Luigi VIII e Bianca di Castiglia e fondatrice del convento delle clarisse di Longchamp, nei pressi di Parigi. Ne dedica il quarto capitolo alla virtù del silenzio, che «non coopera poco alla perfezione, in un uomo religioso»: meno parli, meno sbagli – un tema di lunga tradizione. In realtà, meno parli, meno pecchi, poiché «dalla lingua escono: la bestemmia, la mormorazione, la difesa del peccato, lo spergiuro, la bugia, la detrazione, l’adulazione, la maledizione, l’ingiuria, la contesa, la derisione dei buoni, il consiglio malvagio, la chiacchiera, la iattanza, la rivelazione del segreto, l’indiscreta minaccia, l’indiscreta promessa, il multiloquio, la scurrilità». Mi piace questa miscela di cose sacre e profane (ai miei occhi, per lo meno), e mi piace che Bonaventura si fermi alla pronuncia effettiva e non risalga all’intenzione, facendo dunque del silenzio uno strumento per prevenire il male; quel male che negli stessi decenni viene, di nuovo?, inseguito nella coscienza-anima e cacciato ancor prima della sua manifestazione. Mi piace perché ci si può vergognare di aver pensato una cosa, ma ci si può pentire soltanto di averla detta, cioè quando l’altro entra in gioco.

Il silenzio, prosegue Bonaventura, offre molti vantaggi (utilitates): custodisce la virtù del cuore, per esempio, induce la compunzione, «dimostra come l’uomo sia celeste». L’argomento a sostegno di quest’ultima utilitas è molto curioso (per Bonaventura è «quasi infallibile») e, indirettamente, ci porta di peso in un momento storico di trasformazione e mobilità: «Se uno è in Germania e non parla tedesco [si sit homo in Theutonia et non loquatur Theutonice], apparisce che non è tedesco; così chi è nel mondo, e non parla mondano, evidentemente dimostra che non è del mondo». Non fa una grinza.

Bonaventura oscilla nel suo indirizzo tra uomini e donne, ma il trattato è rivolto a una comunità di sorores e pertanto il modello supremo non può che essere Maria, che nei Vangeli parla «assai poco e con pochi»: sette volte, per essere precisi, con quattro interlocutori. Due volte con l’angelo Gabriele, due volte con Elisabetta (per salutarla e per cantare il Magnificat), due volte a Cana (con Gesù, che le risponde sgarbato, perché è finito il vino, e con i servi) e una volta a Gerusalemme. Maria è, se così si può dire, terreno più che minato per un miscredente, ma quel passo di Luca (2:48) non può non essere riportato. Il dodicenne Gesù si è allontanato di nascosto da mamma e papà, che sono ripartiti da Gerusalemme dopo la Pasqua. Dopo un giorno intero di viaggio i genitori si accorgono che nella carovana non c’è e tornano indietro, disperati. Quando finalmente lo ritrovano, al tempio, tra i dottori, la madre dice al figlio: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».

Se sei una religiosa, conclude il Ministro, il silenzio ti è dunque necessario «in modo singolarissimo» (il motivo non viene spiegato), e la soluzione migliore, per evitare di diventare una «verbosa famula» e una «virgo clamorosa et garrula», è «fare come l’abate Agatone… che si metteva in bocca un sasso per tre anni, sino a che imparasse la taciturnità».

Bonaventura da Bagnoregio, A le suore su la perfetta vita, a cura di don Giuseppe De Luca, Morcelliana 1931; citato in Letteratura latina del secolo XIII, Ricciardi 1956.

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* È simpatico riportare un brano di una lettera del curatore, del dicembre 1929, a Giovanni Papini: «È pure a buon punto la versione del bellissimo “De perfectione vitae, ad Sorores” di S. Bonaventura. Ne vorrei fare un opuscolino buono anche per regalo, specie a Suore, le quali sono le più afflitte dalle compilazioni devozionali insipide e insipienti: una prefazioncina ampia sulla spiritualità femminile francescana da s. Francesco a s. Bonaventura; il testo latino (oggi molte suore san di latino); una versione più liquida e melodiosa – senza sdolcinature – possibile; e poi noticine soignées. Non credo sia nel tono maschile dei Libri della Fede; e forse lo propongo alla Morcelliana».

** Il 7 febbraio 1931 don Giuseppe De Luca riceve dalla casa editrice le copie d’obbligo del volume e scrive all’editore, l’avvocato Fausto Minelli, per esprimergli gratitudine e compiacimento, e il giorno dopo rincara: «Il s. Bonaventura è veramente bellissimo, e non so come ringraziarla per aver creato un così bel libro. Gliene sono riconoscentissimo». Una settimana dopo l’editore risponde, ha avuto un primo riscontro, per così dire sul campo: «Ho sentito con vivissimo piacere ch’Ella è rimasto contento del S. Bonaventura. Anche qui è piaciuto e speriamo abbia successo. Quel sottotitolo “alle suore” allontana, però, molti – ieri alla Fiera del libro cattolico quanti a cominciare dai reverendi hanno detto: “Ah! è per le monache” e via… Povera cultura nostra!» La replica di d. De Luca arriva il 9 marzo: «Io sono lieto che il s. Bonaventura piaccia. Chi lo legge, vede che non è roba da suore, come volgarmente s’intendono le suore. […] È un genere che trova difficoltà sul principio, ma poi, credo, deve imporsi, almeno a chi capisce. Ora i cattolici non è che non capiscono ma son disabituati ai buoni pasti, e, come i poveri, timidi di fronte ai piatti buoni».

[aggiunta del 22/12/2013]

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