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Basilio risponde (le «Regole brevi»)

BasilioRegole È così facile, e bello, immaginare il grande Basilio attorniato dai giovani monaci delle comunità cui offriva il suo sostegno mentre, nella semioscurità, risponde alle loro domande sulla vita cristiana. È lui stesso a ricordare, in una lettera del 375 a Eustazio di Sebaste, la circostanza: «Visitavo le fraternità e vi passavo le notti in preghiera, e parlavo e ascoltavo, intrattenendomi in discorsi su Dio». Era lui stesso, come si è visto, a sollecitare quelle domande, per «passare quel che resta della notte nella ricerca sollecita di ciò che è necessario». E per rispondere attingeva alla Scrittura (soprattutto al Nuovo Testamento e in particolare ai Vangeli, agli Atti e alle Lettere paoline), unico vero codice della vita cristiana, in cui sono contenute tutte le risposte. Sì, nella Scrittura si possono trovare tutte le risposte, ma non tutte le domande.

Quelle che oggi, per nostra fortuna, possiamo leggere sotto il titolo generalmente accettato di Regole brevi1, anche se vere e proprie regole non sono, non è «soltanto una testimonianza di valore storico incalcolabile, ma una ricchissima summa di sapienza evangelica» (Umberto Neri): trecentodiciotto domande e risposte che spaziano da semplici e assai meno semplici questioni di esegesi biblica a questioni molto concrete sui problemi minuti del vivere quotidiano in comunità. Leggendole, tra l’altro, si può cogliere il meccanismo grazie al quale si è passati da sequenze potenzialmente infinite appunto di singole questioni, ai testi che conosciamo come «regole», nei quali le domande si coagulano in categorie e trovano una sintesi, dal particolare al generale: come si prega, come ci si veste, come si mangia, come si accolgono i nuovi arrivati, e gli ospiti, e così via. E forse, soprattutto, leggendole, si prova la netta e impagabile sensazione di trovarsi di fronte alla trascrizione di scambi di battute che si sono realmente verificati.

Basilio, maestro di vita cristiana, risponde a tutto, con un’infinita pazienza che traspare dai testi, tracciando l’immagine di una comunità di persone serie, ispirate dalla carità, pronte all’obbedienza, soccorrevoli le une con le altre, attente a non far mai prevalere se stesse sui fratelli. Una comunità ideale di perfetti che tuttavia, proprio attraverso le domande, riconoscono le proprie imperfezioni, le mancanze, il bisogno di perdono reciproco. Sono le domande che traducono l’ideale in realtà.

E poi ci sono i casi particolari e particolarissimi, che inevitabilmente catturano l’attenzione, proprio perché dimostrano che di reali situazioni vissute si tratta (e testimoniano l’eternità dell’aspirazione al «che cosa devo fare, che cosa dobbiamo fare?»). Gli esempi sono numerosi: Da dove provengono le sconvenienti fantasie notturne? (Tra parentesi: «Dai moti disordinati dell’anima durante il giorno».) Com’è possibile non adirarsi? Se chi viene svegliato se ne risente o addirittura si adira, che cosa merita? Se uno, pur rifiutando gli indumenti più preziosi, tuttavia vuole che l’abito o le calzature, anche se di poco prezzo, siano di suo gradimento, commette peccato? Se uno in comunità si comporta in modo sconveniente durante il pasto mangiando e bevendo con ingordigia, bisogna rimproverarlo? È permesso avere una veste di pelo o di altro genere per la notte? Come dobbiamo considerare quelli che un tempo hanno vissuto con noi o i parenti che vengono a farci visita? Fino ai sempiterni problemi di carattere fiscale: Se uno viene in comunità lasciando delle tasse da pagare e i suoi parenti sono molestati a causa sua da chi reclama il pagamento, questo non genera forse indecisione e danno per lui o per quelli che l’hanno accolto? (Tra parentesi, risposta prevedibile: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare…» a meno che il «novizio» non abbia lasciato tutto ai parenti…)

Anche in questi casi Basilio risponde con pazienza, ricorrendo spesso a un insieme ristretto di citazioni che si adattano un po’ a tutto, quasi dei passe-partout sempre buoni all’occorrenza. Anche quando la domanda è al limite dello sconveniente. Domanda: «È possibile dedicarsi incessantemente alla preghiera dei salmi oppure alla lettura o a profonde conversazioni sulle parole di Dio senza che vi sia alcuna interruzione per quelli cui accade di dover provvedere ai più vili bisogni del corpo? (Un bel giro di parole per chiedere cosa fare quando scappa…) Risposta di Basilio: «L’Apostolo ci indica la regola da seguire dicendo: Tutto avvenga con decoro e ordine. Bisogna perciò aver cura del decoro e del buon ordine, e tener conto del luogo e del momento».

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  1. Basilio di Cesarea, Le regole. Regole lunghe, Regole brevi, nuova edizione rivedute e ampliata, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2022. Vedi anche Basilio di Cesarea, Opere ascetiche, a cura di U. Neri, traduzione di M.B. Artioli, Utet 1980.

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Basilio e il «chilometro zero»

Nella sezione incentrata sulla temperanza delle sue Regole lunghe1, destinate a definire una «vera vita cristiana», Basilio di Cesarea, il grande Basilio, risponde a quattro «domande» (18-21) sulla questione del cibo, a cominciare da una che ha una singolare risonanza attuale: «Bisogna assaggiare ogni cibo che ci viene messo innanzi?» La risposta è sì, poiché tutto ciò che Dio ha fatto è buono: «Occorre che, quando se ne presenta l’occasione, si prenda ogni cibo per mostrare a quelli che ci guardano che… ogni creatura di Dio è buona e nulla va rifiutato, se…» Se? Se si rende grazie e si sta attenti al piacere, «la grande esca del male». Cibi semplici e non più del necessario, evitando assolutamente la sazietà, «quanto a quelli che procurano piacere, dopo averne assaggiato un poco, ce ne ritrarremo subito» – un quadratino di cioccolato al massimo. (Non andrebbe passato sotto silenzio quell’«a quelli che ci guardano», quelli cioè che non vedono l’ora di prendere in castagna il cristiano continente per giustificare la propria incontinenza.)

D’altra parte non «è possibile stabilire un’identica regola per tutti riguardo all’orario dei pasti, al modo o alla misura con cui prendere cibo», poiché diverse sono le età, le costituzioni e le occupazioni; ci sono i malati, c’è chi fa un lavoro pesante, chi viaggia, ecc. Ogni giorno il corpo si svuota e si consuma, quindi «ha bisogno di essere riempito», è naturale, dunque «l’uso corretto dei cibi suggerisce di immettere ciò che è stato esaurito per provvedere al sostentamento dell’essere vivente sia per i cibi solidi sia per i liquidi» – non dimenticare una corretta idratazione.

Cibi semplici ed economici, si diceva, in nome della sobrietà ed evitando le ricercatezze, con una curiosa anticipazione del famigerato «chilometro zero»: «Bisogna invece scegliere ciò che in ciascuna regione è facilmente reperibile, costa poco ed è di uso comune». Prodotti esotici («da fuori») solo se assolutamente necessari per vivere («quali l’olio e simili») o utili ai malati.

E se abbiamo ospiti? Sempre massima sobrietà, sia nei cibi offerti sia nel cosiddetto tovagliato. Non è proprio il caso di pensare a qualcosa di diverso dal nostro solito, o peggio di raffinato e lussuoso, perdendo tempo, denaro e soprattutto umiltà. Se l’ospite è un fratello (nella fede), «riconoscerà la mensa a lui familiare»; mentre se è «uno di quelli di fuori» (e qui la curatrice annota «cioè un non credente», cosa che mi spinge ad adottare per me d’ora in poi questa definizione di derivazione paolina: uno di fuori), nel caso si irritasse o ridesse di noi, meglio: «non ci darà noia una seconda volta». «Il modo di vivere del cristiano ha una sola forma», che si applica quindi anche alla tavola, che in nessun caso deve superare i confini del necessario, al di là dei quali c’è soltanto l’abuso, cioè «quel consumo che va oltre il bisogno».

Un’ulteriore nota per quanto riguarda i posti a tavola. Il comandamento sia quello dell’umiltà, cioè preferire sempre l’ultimo posto, evitando però quei ridicoli balletti del tipo prego-si-metta-a-capotavola, no-no-spetta-a-lei, dopo-di-lei, no-prego-dopo-di-lei, insisto… «Ed anche l’insistere l’un con l’altro e litigare per questa ragione ci renderà tali e quali a quelli che litigano per i primi posti.» L’ordine dei posti lo stabilisce chi ospita, «come ha suggerito il Signore dicendo che spetta al padrone di casa decidere queste cose». Definitivo.

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  1. Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 18-21, in Le regole. Regole lunghe, Regole brevi, nuova edizione rivedute e ampliata, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2022, pp. 133-41.

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Dai, parliamone (Dice il monaco, CXX)

Dice Basilio di Cesarea, dopo il 360:

Se dunque per questo ci ha riuniti Dio e vi è piena quiete dai tumulti di fuori, non volgiamoci a nessun’altra occupazione né concediamo di nuovo riposo al nostro corpo, ma trascorriamo ciò che resta della notte nella ricerca sollecita di ciò che è necessario […]. Se dunque ciascuno di voi ritiene che gli manchi qualcosa, lo sottometta a discussione comune; quello che gli sfugge sarà trovato più facilmente se ricercato più diligentemente da più persone, poiché di certo Dio ci farà dono di trovare quanto cerchiamo.

♦ Basilio di Cesarea, Regole brevi, Prologo 2-3, in Le regole. Regole lunghe, Regole brevi, nuova edizione rivedute e ampliata, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2022, p. 202.

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Sovente, spesso, il più delle volte (Dice il monaco, CXV)

Dice Basilio di Cesarea, intorno al 378:

Tra gli animali irragionevoli ce ne sono anche di quelli che vivono in comunità, se è proprio del vivere in comunità il far convergere verso uno scopo comune l’attività di ciascuno, come si può vedere nelle api. Esse abitano, infatti, in comune, volano insieme, uno solo è il lavoro di tutte. La cosa più sorprendente è che si dedicano al lavoro sotto il comando di un re1 e non accettano di andare nei prati prima di aver visto il re che guida il volo. Il loro re non è eletto con una votazione (sovente, infatti, per la mancanza di saper scegliere rettamente, la gente ha collocato al potere il peggiore); non ha il potere per sorteggio (gli esiti dei sorteggi sono, infatti, irrazionali e consegnano spesso il potere a quello che lo merita meno di tutti) e neppure per successione ereditaria si asside nel palazzo reale (anche questi, il più delle volte, sono incompetenti, ignorano qualsiasi virtù a causa della mollezza lussuosa e dell’adulazione); egli tiene dalla natura il primato su tutti; spicca per il vigore fisico, per la bellezza della sua linea, per la mitezza del suo comportamento. Il re certo possiede un pungiglione, ma non ne usa per difendersi. Queste sono una sorta di leggi di natura non scritte, le quali prescrivono che siano restii a punire quelli che arrivano ai massimi poteri.

♦ Basilio di Cesarea, Omelia VIII, Sui volatili e sugli animali acquatici, 4, in Omelie sull’Esamerone e di argomento vario, a cura di F. Trisoglio, revisione dei testi greci, indici e bibliografia di V. Limone, Bompiani 2017, p. 311.

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  1. È noto che gli antichi credevano essere re quella che noi sappiamo essere regina. (N.d.C.)

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I significati comuni delle parole (Dice il monaco, XCVII)

Dice Basilio di Cesarea, che «applicò l’esegesi in un’ampiezza e con una passione che tracimano in ogni sponda nelle Omelie sull’Esamerone» (F. Trisoglio), intorno al 378:

Io conosco le leggi dell’interpretazione allegorica, anche se non sono stato io a scoprirle, ma mi sono incontrato con altri che le avevano faticosamente elaborate. Quelli che non accettano i significati comuni delle parole che sono scritte dicono che l’acqua non è acqua, ma una qualche altra sostanza diversa; interpretano le parole «pianta» e «pesce» come credono loro; la creazione dei rettili e delle bestie selvatiche la spiegano distorcendola a seconda delle proprie congetture, come fanno gli interpreti dei sogni, i quali danno le interpretazioni che loro interessano delle immaginazioni che sono loro apparse durante il sonno. Per conto mio, quando sento parlare di erba penso all’erba; e anche pianta, pesce, bestia selvatica, mandria io li accolgo tutti come sono detti: «Infatti, io non mi vergogno del Vangelo».

♦ Basilio di Cesarea, Omelia IX, Gli animali terrestri, 1, in Omelie sull’Esamerone e di argomento vario, a cura di F. Trisoglio, revisione dei testi greci, indici e bibliografia di V. Limone, Milano, Bompiani, 2017, pp. 335-337.

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Piccolo decalogo della comunicazione, © 373 by san Basilio (Dice il monaco, XCII)

Dice Basilio di Cesarea, scrivendo all’amico Gregorio di Nazianzo nel 373:

Prima di tutto occorre badare a non ignorare il modo di usare la parola, ma a interrogare senza animosità [1], a rispondere senza ambizione [2], senza interrompere l’interlocutore [3] quando dice qualcosa di utile, senza desiderare di mettere avanti il proprio discorso [4] per mettersi in mostra; a porre discrezione nel parlare e nell’ascoltare [5], a imparare senza vergognarsi [6], a insegnare senza invidia [7]; e se si è imparato qualcosa da un altro, a non nasconderlo, ma a proclamare equamente l’autore di quel tale discorso [8]. Il tono di voce da preferire è quello medio [9], in modo che l’ascolto non sfugga per troppo fievolezza né sia troppo faticoso per eccessiva intensità. Solo dopo aver esaminato in precedenza il contenuto del discorso, bisogna esporlo in pubblico [10]

♦ Basilio di Cesarea, Lettera all’amico Gregorio, in Epistolario, a cura di A. Regaldo Raccone, Edizioni Paoline 1968, p. 49.

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I caratteri precedenti (Dice il monaco, LXV)

(Senza voler concedere alcunché alla «questione» delle coincidenze, mi ha fatto comunque sorridere che ieri, 2 gennaio, giorno in cui si festeggia san Basilio, in uno scaffale basso e un po’ polveroso di una non molto illuminata libreria dell’usato io abbia trovato una vecchia edizione delle Paoline dell’Epistolario del grande padre cappadoce, curata da Adriana Regaldo Raccone, per la nota collana cartonata in verde di «Patristica», numerata in 923 pagine e finita di stampare il 6-6-1968. E visto che il 2 gennaio si festeggia anche san Gregorio di Nazianzo, suo amico fraterno, vediamo cosa…)

Dice Basilio di Cesarea, con la sua non inconsueta dolce durezza ultramondana, in una lettera indirizzata proprio a Gregorio di Nazianzo circa 1650 anni fa, nel 373:

Ogni giorno che viene reca con sé la sua particolare melanconia per l’anima, e ogni notte, ereditando le preoccupazioni del giorno, delude l’animo con le medesime visioni. Da questi affanni c’è una sola via di uscita: l’isolamento assoluto da questo mondo. Questa separazione non consiste nell’esserne fuori fisicamente, ma nello staccare l’animo dai legami con il corpo e nel sentirsi slegato dalla patria, dalla casa, dalla proprietà, dagli amici, dai possedimenti, dalla vita, dagli affari, dalle relazioni con gli altri, dalla conoscenza degli insegnamenti umani, e nell’essere pronti a ricevere in cuore le impronte derivanti dall’insegnamento divino. Questa preparazione del cuore si ottiene spogliandolo dalle lezioni e dagli insegnamenti che per cattiva e radicata abitudine lo posseggono. Non è possibile infatti scrivere sulla cera se prima non si sono cancellati i caratteri precedenti; e neppure imprimere nell’animo gli insegnamenti divini se prima non si sono cancellate le basi acquisite dalla consuetudine.

 

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Che postaccio, Basilio mio!

Più o meno è andata così. Interrotti gli studi ad Atene, Basilio di Cesarea compie alcuni viaggi alla ricerca di un luogo dove condurre vita ascetica, non necessariamente in solitudine, anzi. È il 358 e il luogo infine viene trovato, ad Annesi, nel Ponto, dove Basilio fonda una comunità. Tra le prime cose che fa è scrivere all’amico Gregorio di Nazianzo, «il suo raffinato e delicatissimo compagno di studi retorici», per invitarlo a unirsi a lui, anche in nome della promessa reciproca fatta ai tempi di Atene. Gregorio però gli risponde di no: non può, ha deciso di rimanere accanto ai suoi genitori, a Tiberina. Basilio insiste, va a trovare Gregorio e gli scrive di nuovo (la famosa Lettera 14 del suo epistolario), magnificando il luogo e le qualità del medesimo: «C’è forse bisogno che ti parli delle esalazioni del terreno, o delle brezze che spirano dal fiume? Qualcuno potrebbe ammirare la varietà dei fiori e gli uccelli che cantano, ma io non traggo piacere da questi pensieri. D’altra parte, la qualità più alta di questo luogo è che, pur essendo fertile e ricco di frutti di ogni tipo, mi nutre di quello che per me è il frutto più dolce, la quiete» (chiedo comprensione perché ho tradotto una traduzione inglese).

Gregorio va a trovarlo: D’accordo, visto che insisti, vediamo! Tornato a casa scrive a Basilio tre lettere (la 4, la 5 e la 6 del suo epistolario) e… lo prende in giro. Cioè: Basilio di Cesarea (il Grande) e Gregorio di Nazianzo, forse i due più grandi padri cappadoci, oltre 1650 anni fa, e l’amico prende in giro l’amico.

Ah, certo, dice Gregorio, «tesserò le lodi del tuo Ponto e della tua fede pontica», e anche di quella «topaia che porta i nomi solenni di casa di meditazione [phrontestérion], di monastero, di scuola», ma che postaccio, Basilio mio! La valle chiusa, le bestie selvagge, non c’è aria, non c’è sole, è difficile da raggiungere («il sentiero che lo attraversa… costringe ad esercizi fisici per uscirne indenni»). E questo sarebbe l’Eden? Se lo dici tu… Sì, sì, «ammira le brezze che corrono, le esalazioni del suolo che vi rianimano quando svenite e gli uccelli canterini che cantano, sì, ma la fame, e che volano, sì, ma sul deserto. Nessuno viene qui, se non al momento della caccia, tu dici; devi aggiungere: e per visitare i morti che siete voi» (Ep. 4).

Lasciamo perdere la mensa: «Mi ricordo, sì, di quei pani e di quelle salse – così le si chiamava –, ma mi ricordo anche dei miei denti che scivolavano sui crostini e subito si ritraevano, come dal fango!» E anche l’orto puzzolente in cui abbiamo lavorato («con questa nuca e queste mani che portano ancora i segni delle fatiche»), meno male che è arrivata tua madre, «apparendo al momento propizio come un porto ai naufraghi sballottati dalla tempesta, [altrimenti] da tempo saremmo cadaveri» (Ep. 5).

Un bel gioco dura poco, e anche Gregorio lo sa: «La lettera precedente in cui scrivevo sul mio soggiorno nel Ponto era uno scherzo, niente di serio; ma quello che ti scrivo ora è molto serio». La Lettera 6 ristabilisce per così dire la verità: Gregorio ha grande nostalgia, umana e spirituale, dei giorni passati con Basilio. In quel luogo è stato piantato il seme di una forma di vita regolata, fatta di virtù e preghiera, di unione tra i fratelli, di servizio quotidiano, di veglie e di inestimabile carità. Su questo Gregorio non può scherzare, e meno ancora può scherzare sull’amicizia, su quella che aveva definito «fusione delle nostre nature»: «Poiché è te che respiro più che l’aria, e vivo soltanto nella misura in cui sono con te, sia quando sono presente, sia quando sono assente, nei sogni».

Gregorio di Nazianzo, A un amico. Lettere a Basilio ed Epigrammi, a cura di L. Cremaschi e B. Mariano, Edizioni Qiqajon-Monastero di Bose 2003.

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