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Andare errando e correre qua e là

In una data imprecisata tra il 1100 e il 1109 Anselmo d’Aosta, che è arcivescovo di Canterbury già da almeno sette anni, scrive a Mabilia, monaca si presume presso il priorato di Marcigny. Fondata da Ugo di Cluny intorno al 1055, Marcigny è la prima filiazione cluniacense femminile e ha nella clausura un carattere distintivo. Può ospitare novantanove monache, perché il centesimo posto è per Maria Vergine, cui è consacrato il monastero e cui è riservato nel coro «lo stallo centrale, lasciato sempre vuoto»1. La fondazione fiorisce, «richiamò numerose vocazioni e non furono rari i casi in cui molte donne coniugate entrarono a Marcigny, mentre i loro coniugi andavano a Cluny».

Per garantire l’osservanza della clausura, l’abate di Cluny dispone nelle vicinanze un insediamento monastico maschile, con una dozzina di confratelli e due priori, uno che agisce da procuratore della comunità femminile e uno che bada alla cura spirituale delle monache. Un monastero doppio, in pratica, ma nel quale la separazione è più che netta.

Ciò detto, Mabilia manifesta il desiderio di uscire, forse per andare a far visita ai parenti, Anselmo – non si sa bene come – ne viene a conoscenza e le scrive una lettera succinta ma accoratissima2, motivata dal grande amore che prova per lei: «Ti voglio bene, e, non meno di quanto mi stia a cuore la mia anima, mi sta altresì a cuore la tua». Un amore che ispira all’arcivescovo toni un tantino passivo-aggressivi, si direbbe oggi, e che lo porta «ad intervenire, a rimproverare e spesso, almeno secondo la nostra sensibilità e il nostro modo di vedere, ad insistere anche eccessivamente nel voler far rientrare a tutti i costi in monastero queste nobildonne la cui storia vocazionale era altamente complessa e forse anche dubbia, se non addirittura inesistente, ma dettata da motivi sociali, politici o da interessi economici»3.

Non puoi aver cari allo stesso modo i beni mondani e i beni eterni, Mabilia, «carissima figlia»: se aspiri a essere monaca, il mondo per te è stato crocifisso e, come dice Paolo, considera i suoi beni «alla stregua di spazzatura» (propr. tamquam stercora). A che ti serve andare a trovare i parenti? «Non hanno affatto bisogno del tuo consiglio e aiuto, né tu alcun consiglio o aiuto riceverai, di cui già non potresti fruire nel chiostro». Se proprio hanno bisogno di parlarti, verranno loro da te; infatti «a loro è permesso andare errando e correre qua e là [illis licet vagari et discurrere per diversa – bellissimo], tu invece non puoi uscire dal chiostro «a meno che Dio non ne dimostri l’imprescindibile necessità» (sic, Dio stesso!). Lascia stare il mondo, figlia mia: chi ama il mondo è nemico di Dio, chi cerca «l’amicizia di quanti con il mondo sono solidali […] tanto meno sarà in amicizia con Dio e con gli angeli a lui amici».

In mezzo a tutta questa amicizia si può leggere un piccolo esempio luminoso di quella frattura della Chiesa con la realtà (so che bisognerebbe essere più precisi), la risalita dalla voragine della quale si può dire sia ancora in corso: «La teologia universitaria ha creato una categoria teologica che non era mai stata usata dai Padri della Chiesa fino al XIII secolo e la cui accettazione distrugge alla radice il senso della vita monastica e la sua prospettiva teologica. E mi riferisco a qualcosa che si trova anche nei documenti dell’attuale Magistero della Chiesa: la divisione tra naturale e soprannaturale, per non dire la “rottura” tra i due»4.

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  1. Ho ricavato queste notizie e le successive da Vincenza Musardo Talò, Il monachesimo femminile. La vita delle donne religiose nell’Occidente medievale, San Paolo 2006.
  2. Anselmo d’Aosta, Lettera 405. Alla monaca Mabilia, in Lettere, 2: Arcivescovo di Canterbury, t. 2, introduzioni di I. Biffi e A. Granata, traduzione di A. Granata, commento di C. Marabelli, Jaca Book 1993, pp. 374-77.
  3. M.L. Tartaglia, osb, Le lettere di Anselmo d’Aosta alle monache: un itinerario di vita spirituale, in «Studia Monastica» 60 (2018), 2, pp. 295-328.
  4. Fernando Rivas, osb, Formazione monastica e teologia, in «Vita Nostra» 2025, 1, pp. 36-51.

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«Ma ditemi un po’, signor abate». Sant’Anselmo e i giovani

Mentre cercavo di orientarmi (i.e. di capire qualcosa) nelle prove dell’esistenza di Dio di Anselmo d’Aosta, la mia guida, Sofia Vanni Rovighi, ha puntato il dito su un episodio della sua vita, come dice lei stessa, «degno di essere ricordato»1.

Anselmo è priore dell’abbazia benedettina di Bec, in Normandia, quindi siamo intorno al 1070, quando parlando con un abate in visita, «ritenuto molto pio», viene a discutere dell’educazione dei ragazzi (gli oblati) presenti nel chiostro. L’abate si lamenta: «Sono perversi e incorreggibili. Noi non cessiamo di frustarli giorno e notte, ma non fanno che peggiorare». Ah, non fate che frustarli? ribatte Anselmo. E quando crescono come diventano? chiede. «Stupidi e brutali», risponde l’abate. Ah, bel risultato, commenta Anselmo, da uomini che erano ne fate animali. «E noi che cosa possiamo fare?» insiste l’abate. «In tutti i modi li obblighiamo a migliorare, ma non otteniamo nulla.»

«Li obbligate?» Provocato, Anselmo risponde: «Ma ditemi un po’, signor abate [Dic quaeso michi domine abba]…» E attacca una tirata che dimostra a un tempo e la sua indignazione – assai precoce – di fronte a tale scempio e la sua visione positiva della natura umana. Gli oblati sono come piccoli alberelli piantati nell’orto della Chiesa, ma cosa succede se dopo aver piantato un albero lo comprimete da ogni parte, impedendogli di stendere i suoi rami? Crescerà storto, per forza. Allo stesso modo i ragazzi, senza poter godere di alcuno spazio di libertà, «oppressi in maniera scriteriata, accumulano, incrementano e nutrono pensieri perversi, che si attorcigliano in loro come spine»; e quel ch’è peggio, mentre crescono nel corpo, «maturano in loro anche l’odio e il sospetto della cattiveria dappertutto. […] E siccome sono stati cresciuti a non provare vero amore nei confronti di nessuno, non riescono a vedere nessuno, se non con sguardo accigliato e torvo».

«Perché siete loro così ostili?» Incalza Anselmo, e cambia immagine. Avete mai visto un orafo trasformare una lamina d’oro in un gioiello soltanto a martellate? Oltre alla severità occorrono anche «il conforto e l’aiuto di un’amorevole pietà e mansuetudine paterna». Qui l’abate tenta una sortita: «Ma quale conforto e quale aiuto? Ci diamo da fare per spingerli ad assumere comportamenti seri e maturi [graves et maturos mores]». Ma bene, ma bravi! riparte Anselmo. Come no, date del pane e del cibo solido a un neonato, vedrete se «più che esserne rifocillato, non ne sarà strozzato». L’anima, come il corpo, a seconda dell’età e della costituzione, ha bisogno di cibi differenti. L’«anima robusta» manda giù anche le cose più indigeste, l’«anima fragile… ha invece bisogno del latte, ossia della mitezza degli altri, della benignità, della misericordia, degli inviti gioiosi al bene… e di molte altre cose simili» (un paio di corsivi miei).

«Se vi adatterete in questo modo nei confronti di quelli che dipendono da voi», conclude Anselmo, «[…] li conquisterete tutti a Dio, per quanto dipende da voi.» La «tirata», lunga poco meno di cinquanta righe (fitte) a stampa, stende l’abate, letteralmente: costui infatti scoppia in lacrime e, «prostrandosi a terra, ai piedi di Anselmo, riconobbe di aver sbagliato e di essere colpevole».

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  1. L’episodio è narrato da Eadmero, nella Vita di sant’Anselmo, 1, XXII, che si può leggere in Eadmero e Giovanni di Salisbury, Vite di Anselmo d’Aosta, a cura di I. Biffi, A. Granata, S.M. Malaspina e C. Marabelli, con la collaborazione di A. Tombolini, Jaca Book 2009, pp. 67-71.

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«È sorprendente!» (Dice il monaco, CVIII)

Scrive Anselmo d’Aosta, già monaco, priore e abate, e a questo punto arcivescovo di Canterbury, alla fine del 1106:

al suo davvero diletto amico Elgoto, il venerabile abate del cenobio di Saint-Ouen; con il migliore augurio che l’amicizia saprebbe suggerire.

Un vero amico si dà sempre pensiero, come di un altro se stesso, di chi gli è vero amico; né ignora quali gioie o pene, a seconda delle circostanze, debba con lui condividere. Non gli è per nulla caro il soffrire; se però c’è una pena da condividere, desidera piuttosto – è sorprendente! – esserne a conoscenza e con lui soffrire, anziché ignorandola non soffrirne affatto. La vostra diletta e, in nome dell’amicizia, per me soave persona, desidera sapere che ne sia della mia attuale esistenza; onde intimamente disporsi nei miei riguardi in perfetta consonanza con il mio più intimo stato d’animo.

[…] Per quanto lo consentono le instabili vicende di questo mondo, tutto – a parte la debolezza fisica da me ogni giorno avvertita in misura crescente – va per me, Dio aiutando, a gonfie vele [omnia mihi… deo dante prospera sunt], sia dal punto di vista della salute che sotto ogni altro aspetto.

♦ Anselmo d’Aosta, Lettera 407, in Lettere, vol. 2: Arcivescovo di Canterbury, tomo 2, traduzione di A. Granata, commento di C. Marabelli, Jaca Book 1993, pp. 379-81.

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Le miserie e le fiacchezze spirituali da me collezionate (Dice il monaco, XCIII)

Scrive Gualtiero, «vecchio e malato monaco» benedettino, probabilmente dell’abbazia di Bury St. Edmunds, ad Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury, intorno al 1106:

Al desiderabile signore Anselmo, degno d’essere il più affettuosamente possibile accolto nel seno di sua madre la Chiesa universale: il fratello Gualtiero, uno dei suoi, l’ultimo resto dei suoi devoti; con l’augurio di bastantemente attingere la desiderata abbondanza, la gioia più profonda. […]

Prima della mia fine, se ciò fosse possibile, moltissimo desidererei avere la gioia di vedervi e dolermi con voi delle mie afflizioni. Poiché il mio tempo è trascorso, né so se dalla mia lunga esistenza ho tratto qualche frutto. Siccome però l’indebolimento dovuto alla vecchiaia rende tale mio desiderio irrealizzabile, eccomi a non senza gemiti delinearvi, qui dove mi trovo, le miserie e le fiacchezze spirituali da me collezionate. Ciò in particolar modo implorando: che – come vi siete fatto tutto a tutti – così non rifiutate di amabilmente istruirmi con una vostra risposta; proprio come, all’occasione, mi confortereste faccia a faccia. Avrò in tal modo un efficace riparo dalle mie difficoltà e un gradito ricordo della vostra dolcezza. Precisamente a ciò mira la mia preghiera: a far sì che, non potendo io avervi tutto quanto come mi augurerei, a me vi concediate almeno in piccola parte; non perché questa possa sostituirvi, ma perché, al guardarla, riprenda io fiato grazie al vostro conforto. Non già che alla mia infermità non basti il nutrimento delle Scritture; è però sempre preferibile, quando si è malati, ricevere in dono ciò di cui si avverte la mancanza. Basta talora il tocco di una sola persona a calmare chi da molti medicamenti non ricava alcun beneficio.

Anselmo d’Aosta, Lettera 433, in Lettere, vol. 2: Arcivescovo di Canterbury, tomo 2, traduzione di A. Granata, commento di C. Marabelli, Jaca Book 1993, pp. 427-29.

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