Sì, non posso negare che ci sia una punta di autocompiacimento quando prelevo dallo scaffale un volume comprato ancora letteralmente intonso1 qualche anno fa e mi dico: Oh, adesso mi leggo questo Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo2. L’autocompiacimento deriva, ahimè, dalla considerazione che non devono essere moltissimi i lettori odierni di questo libro, ma anche dalla conferma della sensazione avuta al momento dell’acquisto di: qui-dentro-ci-deve-essere-qualcosa-di-interessante. E difatti c’è.
L’autore, d. Angelo Gambasin (1926-1990), già ordinario di Storia moderna nella facoltà di Scienze politiche all’Università di Padova e di Storia della Chiesa nel Seminario vescovile di Padova, ha lasciato un ampio numero di ricerche di storia religiosa (con particolare riguardo al Veneto e al XIX secolo) basate su quella dedizione allo scavo archivistico inesausto che desta sempre gratitudine. In questo caso ha fatto un «salto» in Sicilia e si è letto gli atti (e tutta la documentazione «circostante») della congregazione dei vescovi siciliani, che si tenne dal 2 al 24 giugno 1850, «un avvenimento del tutto nuovo, essendo la prima volta dopo secoli, che si riunivano in una conferenza generale, con il placet del re, i pastori della chiesa siciliana».
All’interno di questo gigantesco «rapporto» sulla situazione del clero isolano, sulle relazioni interne e nei confronti della società civile; sui problemi, sulle continuità e sulle avvisaglie del cambiamento; sulle differenze tra città e campagna, ecc., non poteva mancare una sezione dedicata al clero regolare, e ad essa Gambasin riserva il paragrafo, Frati e monache, che apre il quinto capitolo (Devozioni e opere di carità) e che già dall’incipit promette bene: «In Sicilia le comunità e le case religiose costituivano “una parte considerevole” della società. Romitaggi, conventi e monasteri avevano scuole, gestivano opere di assistenza; erano forzieri dei patrimoni culturali e dei testi sacri, mete di pellegrinaggi e rifugi per sciagurati. […] Sui monasteri gravitavano, per motivi di interessi vari, impiegati contabili, maestri, artigiani, servi della gleba e personali, affittuari e massari, turme di mendicanti e di ricoverati».
Si comincia con qualche numero. A Palermo nel 1832 «i regolari stavano in rapporto di 1 per 227 abitanti» (in seconda posizione dietro Messina, 1 per 219), e nel 1845 le case erano 71; superate dalle 83 di Siracusa (1832) e dalle 99 di Agrigento (1828): «Ogni convento o monastero svolgeva un importante ruolo anche sociale: i francescani facevano elemosine ai poveri, custodivano i cimiteri e curavano l’istruzione elementare dei figli del popolo; i crociferi e camilliani si dedicavano all’assistenza degli ammalati; gli scolopi, i teatini e i gesuiti dirigevano collegi ed istituti di educazione per ceti nobili e borghesi; i passionisti, i gesuiti ed i cappuccini predicavano le missioni». Non mancavano anche gli eremiti: «In genere erano laici che vivevano di elemosine in luoghi remoti e inaccessibili», oggetto di venerazione da parte del popolo, di un certo fastidio da parte dei vescovi e di attenzione da parte dell’autorità – così si esprimeva un ispettore in una relazione del 1850 al prefetto di polizia di Palermo: «Io la interesso di impedire le questue alle quali ordinariamente si addicono i così detti eremiti, ed altri che per non voler muovere le braccia al travaglio, loro torna conto vivere nell’ozio, ed empire il ventre senza pena».
Già, la massa di relazioni sullo «stato delle cose» è imponente, tutti scrivono e al di là di frasi che suonano un po’ di circostanza sulle virtù del clero regolare, «magistrati, giudici, vescovi e visitatori regi e apostolici concordano nel ritenere che chiostri e monasteri precipitavano in un grave declino spirituale». Il quadro generale è abbastanza impressionante e coinvolge anche le case femminili: nei cenobi entra ormai chiunque (tanto un modo per uscire si trova una volta che ci si è impossessati di una prebenda); sfruttamento dei fratelli conversi per i lavori più umili; lotte fratricide, è il caso di dirlo, tra opposte fazioni in occasione di elezioni di superiori e abati; debiti, ozi, vagabondaggi, intrighi e continue «migrazioni dei frati da un convento all’altro», frati che, «per far quattrini, s’immischiano in affari secolari»; la «piaga» di offrire ai monasteri neonati o infanti e quella dei «conventini», cioè le comunità con meno di sei membri, quasi del tutto fuori controllo; il comportamento delle monache: «festaiolo e frivolo: parate carnavalesche per la vestizione, danze e feste con musica classica, acclamazioni comiziesche per l’elezione della superiora, libero e incontrollato accesso ai medici, domestici e sacerdoti», parlatori che restano aperti «fino a notte alta per danze, canti e balli»; reclutamento spregiudicato di bambine di età inferiore a sette anni, per carpire lasciti e donazioni o coprire il bisogno di cameriere e serve; «sordido mercimonio» tramite aste delle celle del monastero; «profuse spese di apparati, gelati, dolci, assai sconvenevoli in una religiosa funzione», sprechi per «candele, tappeti, abbellimenti di altari, e per la musica»; rilassamento generale, dispregio delle regole, nessun rispetto della clausura, eccessi gastronomici di ogni tipo, eccetera, eccetera.
È il 1850. I vescovi siciliani a fronte di tale sfacelo, non privo va detto di contraddizioni, auspicano e provano a impostare una riforma, andando incontro a forti opposizioni, non soltanto da parte dei diretti interessati, ma anche della corte napoletana e di quella… romana. La strada per arginare gli abusi, ripristinare la disciplina e l’osservanza delle regole si prefigura lunga e tortuosa… E poi, sedici anni dopo, arrivano le leggi del neonato Regno d’Italia: odiose, odiate e… provvidenziali?
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- Cosa ormai tanto singolare che la libraia ha inserito nel volume un foglio dove spiega il significato di «intonso» e che le «pagine appiccicate, chiuse» non sono un difetto.
- Angelo Gambasin, Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo, introduzione di G. De Rosa, Edizioni di Storia e Letteratura 1979.
