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Al posto giusto (Dice il monaco, CXXVIII)

Dice sant’Agostino nel 397, prescrivendo quanto si deve «osservare nel monastero»:

Chiunque abbia recato danno a un suo fratello, con ingiurie, maldicenze, o accuse gravi, non si dimentichi di rimediare al male procurato porgendo le sue scuse senza indugio. Quanto a colui che è stato offeso, perdoni senza discutere. Se si sono recati un danno reciproco, devono perdonarsi vicendevolmente le loro offese… Se uno si lascia spesso trasportare dalla collera, ma si affretta a implorare il perdono di chi riconosce di aver offeso, è da preferire a chi forse è meno disposto all’ira ma difficilmente si decide a chiedere perdono. E colui che pretende di non farlo mai o non lo fa dal profondo del cuore, non è al posto giusto in un monastero, anche se non viene espulso. Siate dunque avari di parole dure. E se ce n’è stata qualcuna sulla vostra bocca non abbiate vergogna a rimediarvi con la stessa bocca dalla quale è venuta la ferita.

♦ Sant’Agostino, Regola, VI, 2, in Luc Verheijen, La Regola di S. Agostino. Studi e ricerche, traduzione di B. Caravaggi, revisione di G. Scanavino, Edizioni Augustinus 1986, p. 32.

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Manualistica agostiniana

AgostinoUrna

Urna di sant’Agostino; S. Pietro in Ciel d’Oro, Pavia (foto Potts)

Il diacono cartaginese Deograzia chiede, intorno al 405, e il vescovo Agostino risponde. Avrei bisogno di un consiglio su come trattare i «principianti» (i rudes) che mi chiedono di essere istruiti nella fede cristiana, sono pieno di dubbi… Eh, ti capisco Deograzia, eccome se ti capisco, esordisce Agostino, e gli scodella un vero e proprio manuale pratico1, conciso, brillante, ricco di esempi e che trasuda sapienza psicologica ed esperienza sul campo («dico queste cose per esperienza…», «ti sono testimone di me stesso…»2).

Al centro dell’interessantissimo trattatello, tra una prima parte dedicata agli aspetti generali della questione, al fine e al valore della catechesi, ai motivi «di chi viene con l’intenzione di diventare cristiano», ai tipi diversi di ascoltatore, e una parte conclusiva occupata interamente da un esempio concreto (poniamo che si presenti un cittadino medio, «probabilmente lo indottrinerei con questo discorso…» – versione lunga e breve), Agostino elenca e analizza i principali motivi di insoddisfazione di chi insegna (il catechista; il professore?). Già, perché anch’io, dice Agostino, «mi rattristo nel dover constatare che la mia lingua non è in grado di esprimere il mio cuore. [Vorrei] che tutto quel che capisco venga capito da chi mi ascolta e mi accorgo di non parlare in modo che ciò avvenga…»

Non sempre, tuttavia, questa insoddisfazione nasce da una nostra mancanza di conoscenza. Può capitare, anzitutto, che l’ascoltatore resti impassibile: capisce? Non capisce? Si sta annoiando? Si è distratto? È necessario allora chiedere perché sta zitto e non reagisce nemmeno «con un gesto qualsiasi del corpo», e quindi aggiustare il tiro «secondo la sua risposta». Se poi l’ascoltatore sbadiglia bisogna «risvegliare il suo animo dicendo qualcosa condito da onesta allegria» – piazzare una battuta, insomma. Ah, è bene anche accertarsi che non sia stanco di stare in piedi, non c’è niente di male nel parlare e ascoltare seduti. Se l’impassibilità persiste, «raccontiamo qualcosa di veramente inaspettato e fuori del previsto». Breve, però!

Anche noi potremmo essere distratti, ad esempio da un pensiero grave, e ci annoia di dover tornare su ciò che «ci è notissimo», oppure avevamo altro da fare quando ci hanno chiamato. Avevamo tutte predisposte «secondo il nostro criterio le cose da fare» ed è arrivato uno che vuole sapere, domanda, insiste («Vieni a parlare con questo, vuole diventare cristiano», inciso di mirabile realismo). In tal caso, invece di seccarci, dobbiamo rallegrarcene, perché a Dio è piaciuto ordinare le cose secondo il Suo, di criterio.

Può capitare che ci manchino le parole, proprio quelle che ci parevano perfette quando leggevamo o ascoltavamo a nostra volta, e com’è che adesso non riusciamo a farci capire…? Né si può negare che possiamo essere stufi di ripetere sempre le stesse cose: ci salvi in questi casi l’amore fraterno: «Non accade forse di solito che quando mostriamo a chi non li ha mai visti prima luoghi belli ed ameni, di città o di campagna, che noi, avendoli già visti, attraversiamo senza alcun interesse, si rinnovi il nostro piacere nel loro piacere della novità? E tanto più, quanto sono amici!»

La carità verso i fratelli è sempre la motivazione dell’insegnamento e il rimedio per le insoddisfazioni e i problemi che possono sorgere: se questo è il fine di ogni discorso, «narra ogni cosa in modo che la persona a cui parli creda ascoltando, speri credendo ed ami sperando».

______

  1. Agostino d’Ippona, La catechesi ai principianti (De catechizandis rudibus), introduzione, traduzione e note di A.M. Velli, Paoline 20234.
  2. «Ti sono testimone di me stesso che, ora in un modo, ora in un altro, mi sento condizionato quando vedo davanti a me da catechizzare un erudito, un ignorante, un cittadino, un pellegrino, un ricco, un povero, un privato, un personaggio degno d’onore con assegnata qualche carica, un uomo di questa o quella gente, di questa o quella età o sesso, di questa o quella setta, reduce da questo o quel peccato…» (Che bella, tra l’altro, la nozione di essere reduci da un peccato.)

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«Mai fissi, mai stabili» (Circoncellioni, pt. 1)

La gioia (be’, sì) di aver trovato un testo dedicato interamente ai circoncellioni è stata pari al rammarico di non essere all’altezza del suddetto testo.

Il primo contatto con questa misteriosa setta eretica, comparsa sulla scena della storia del cristianesimo nella prima metà del IV secolo, in Africa, l’ho avuto leggendo la splendida Piccola enciclopedia delle eresie cristiane di Michel Théron: «Il loro nome viene dal latino circumcellio, composto da circum, “intorno”, e cella, “abitazione”, dal momento che questi eretici andavano di casa in casa predicando la loro dottrina», scrive brevemente Théron, e li classifica come «donatisti intransigenti», poiché non ammettevano che per paura della persecuzione e del martirio si potesse rinnegare la propria fede, chi lo faceva era dannato. Punto.

Poi li ho incrociati nel De opere monachorum di sant’Agostino, che peraltro, ho scoperto in seguito, è considerato la fonte più importante di notizie sui circoncellioni. Nel capitolo 28, 36, senza nominarli direttamente (come fa invece nelle opere antidonatiste), Agostino attribuisce al «nemico infernale» la responsabilità di aver sparso dappertutto, allo scopo di infangare il nome dei veri monaci, «tanta gente ipocrita ricoperta del saio monacale: gente che gironzola [circumeuntes] per le province senza che si sappia chi li abbia mandati, gente in perpetuo movimento, mai fermi, mai stabili. E ce ne sono di quelli che fan commercio con le reliquie dei martiri (seppure sono dei martiri!)… E tutti chiedono, tutti pretendono: incassi d’una mendicità redditizia, prezzo d’una santità simulata». Quando poi vengono catturati, si lamenta Agostino, sono definiti genericamente monaci (sub generali nomine monachorum) e quelli autentici ne soffrono un grave danno d’immagine.

Infine son saltati fuori nel libro di Cardini su Cassiodoro. Eccoli lì, tra i vari fenomeni che lo studioso ricorda per smentire l’immagine tradizionale di un passaggio dell’Impero romano dal paganesimo al cristianesimo senza sussulti: «L’Alto Egitto era letteralmente pattugliato dai monaci, guidati da Scenuda di Atripo, che perquisivano le case dei pagani alla ricerca di idoli da distruggere. Nell’Africa settentrionale bande di monaci itineranti detti circumcelliones battevano le campagne alla ricerca dei nemici della fede al grido di “Dio sia lodato!”, armati di pesanti bastoni chiamati Israel».

Si può immaginare dunque la mia soddisfazione quando sono entrato in possesso di Furiosa turba. I fondamenti religiosi dell’eversione, della dissidenza politica e della contestazione ecclesiale dei Circoncellioni d’Africa di Remo Cacitti. Altrettale è stato, come dicevo, il mio cruccio nel momento in cui mi sono reso conto – non ci è voluto molto – che il prezioso volume non era alla mia portata. Perché è dotto, fitto di riferimenti e tutte le citazioni, parecchie, sono in originale, lingue classiche e moderne – e non sto dicendo che siano difetti, niente affatto. Scorro sconsolato le poche sottolineature che ho fatto, con la vaga consapevolezza del rilievo storico del fenomeno («il rapporto – evidenziato ma non giustificato dai testimoni antichi del movimento – tra la loro facies religiosa e la loro indole eversiva») e poco di più.

Vediamo cosa.

(1-continua)

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Semplicemente

Fondatori del monachesimo di Umberto Neri è un libro eccezionale per vastità di erudizione, partecipazione al soggetto, capacità di scelta delle citazioni, onestà intellettuale, profondità e chiarezza dell’esposizione. Il volume si basa sulle conferenze tenute dall’autore (monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata) a Gerusalemme nel 1982 e dedicate ai cinque «momenti» cruciali del monachesimo pre-benedettino: Pacomio (ne ho fatto cenno qui), Basilio, Agostino, Cassiano e la Regula Magistri. Non ci sarebbe molto altro da aggiungere, ma ripassando le ripetute sottolineature (come se un tratto di matita servisse a partecipare alla sapienza), mi accorgo che c’è un paragrafo sul quale mi sono fermato di più: il quinto del capitolo su Agostino, intitolato «Essenza del monachesimo cenobitico».

Il quale paragrafo prende le mosse da tre citazioni bibliche che definiscono il «proprio» della vita monastica secondo Agostino: il famoso passo degli Atti degli Apostoli (4,32), quello del tanto dibattuto «comunismo» dei discepoli di Gesù, e due versi dai Salmi 68 (67) e 133 (132), che rimandano alla convivenza armoniosa nella stessa casa. Ed è proprio commentando l’ultimo Salmo citato («Quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme [in unum]»), e analizzando la risposta che si dà al suo richiamo, che Agostino distingue tra «tutti i cristiani» e i monaci, poiché «queste parole del salterio, questa dolce armonia, questa melodia tanto soave a cantarsi quanto a considerarsi con la mente, questo ha effettivamente generato i monasteri. Da questa armonia sono stati destati quei fratelli che maturarono il desiderio di vivere nell’unità».

Ecco i monaci, continua Agostino, ecco il monaco, cioè l’«uno solo», non nel senso di «solitario» bensì di «unito»: «Uno, infatti, si può dire anche di chi è immerso fra la folla, di chi si trova tra i molti. Di lui non si può dire, però, che è monos, cioè solo. Eccovi ora della gente che vive nell’unità, fino al punto di costituire un solo uomo». La comunità che così si forma (la Chiesa stessa, di cui il monastero rappresenta la «frontiera avanzata») va al di là di qualsiasi rapporto naturale e si eleva a simbolo di un’unità senza limiti, all’interno della quale nessuno persegue i propri scopi o il proprio esclusivo bene, nessuno possiede alcunché, nessuno afferma la propria volontà, tutti vivono in perfetta carità.

«Potrebbe sembrare che questa descrizione stupenda sia un po’ utopistica», concede Neri, introducendo numerosi passi che testimoniano del realismo agostiniano. Il monastero, infatti, è anche la scuola della tolleranza, della sopportazione di sé e degli altri, della prova continua delle tentazioni («ognuno ricordi che porta con sé una parte cattiva, che altri devono sopportare»). Il monastero è un torchio: «Finché pendono dagli alberi che li portano come frutti, finché godono dell’aria libera, né l’uva è vino, né le olive sono olio… Così sono anche gli uomini… Tutti quelli che accedono al servizio di Dio, sappiano di essere venuti ai torchi: saranno schiacciati, spremuti, lacerati, non per morire in questo mondo, ma per fluire nella cantine di Dio». (Mi colpisce, tra l’altro, come il tema dell’oliva scivoli fino a Lutero, monaco agostiniano, che – in una citazione che purtroppo non riesco a ritrovare – dice che l’uomo è come un’oliva, dà il meglio quando lo spremi. Una prospettiva inquietante, dalla «scuola della sofferenza» al lavoro, che vorrei saper confutare con parole definitive.)

Superare quelle prove, ottenere quella divina unità è possibile dunque soltanto a partire da un esercizio indefesso dell’umiltà e confidando nella grazia del Signore, che è la chiave per il passaggio a un livello superiore. Tale comunità, infatti, precisa Neri, «non è semplicemente uno stare insieme, volendosi bene, umanamente, in modo più o meno facile, più o meno felice, ma comunque ancora umano, cioè come un vincolo di unità ancora essenzialmente di natura psicologico-morale».

Ecco, a conclusione del paragrafo, e al di fuori della trattazione storica, alzo timidamente la mano: come sarebbe a dire semplicemente? Perché lo stare insieme, il volersi bene umanamente dovrebbero essere relegati nella categoria del «semplicemente»? Perché quei frettolosi «più o meno facile» e «più o meno felice», in cui invece si srotola la parte più grande, più bella dolorosa tragica della nostra storia di individui? Perché quell’«ancora» applicato a sancire l’imperfezione del vincolo «di natura psicologico-morale» che ci spingerebbe alla fratellanza? La mano l’abbasso subito, perché qui si confrontano i giganti; ma, proprio grazie a coloro che l’hanno tenuta ben alzata in passato, lo faccio senza sensi di inferiorità.

Umberto Neri, Fondatori del monachesimo, Piemme 1998.

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