Dice sant’Agostino nel 397, prescrivendo quanto si deve «osservare nel monastero»:
Chiunque abbia recato danno a un suo fratello, con ingiurie, maldicenze, o accuse gravi, non si dimentichi di rimediare al male procurato porgendo le sue scuse senza indugio. Quanto a colui che è stato offeso, perdoni senza discutere. Se si sono recati un danno reciproco, devono perdonarsi vicendevolmente le loro offese… Se uno si lascia spesso trasportare dalla collera, ma si affretta a implorare il perdono di chi riconosce di aver offeso, è da preferire a chi forse è meno disposto all’ira ma difficilmente si decide a chiedere perdono. E colui che pretende di non farlo mai o non lo fa dal profondo del cuore, non è al posto giusto in un monastero, anche se non viene espulso. Siate dunque avari di parole dure. E se ce n’è stata qualcuna sulla vostra bocca non abbiate vergogna a rimediarvi con la stessa bocca dalla quale è venuta la ferita.
♦ Sant’Agostino, Regola, VI, 2, in Luc Verheijen, La Regola di S. Agostino. Studi e ricerche, traduzione di B. Caravaggi, revisione di G. Scanavino, Edizioni Augustinus 1986, p. 32.
