Cose così semplici, così della vita di tutti (l’Epistolario di santa Teresa)

Se potessi incontrare uno dei monaci o delle monache del passato di cui leggo con insistenza i testi e le testimonianze non sarebbe san Bernardo o san Basilio, che in modi diversi mi annichilerebbero, né uno dei Padri del deserto, con i quali ci potrebbero essere delle oggettive difficoltà di comunicazione, bensì santa Teresa d’Avila, senza esitazione. Lo spunto per questa confessione un po’ ridicola me lo dà l’aver trovato su una benemerita bancarella una compatta edizione del suo Epistolario1. So già che sarà una lettura assai profittevole, a cominciare dalla bellissima introduzione del carmelitano scalzo Tomás Álvarez2, che, oltre a molte informazioni interessanti, sintetizza quell’aspetto fondamentale che, dottrina a parte, mi spinge a immaginare l’incontro impossibile.

Teresa comincia a scrivere avanti negli anni, non soltanto le grandi opere come il Cammino o il Castello, ma anche le lettere, perlomeno quelle che ci sono giunte, che coprono gli ultimi quindici anni della sua vita, dai 53 ai 67 (quando muore, nel 1582). Dopo un primo rodaggio, il carteggio diventa centrale nella sua vita quotidiana («Alla madre Teresa accadeva di starsene a sbrigare e scrivere lettere sino alle due del mattino, andava a letto a tale ora, pregando di svegliarla dopo due ore») e diventa uno strumento complesso di lavoro, di relazione, di amicizia, di espressione dei propri sentimenti: «Anzitutto ella scrive per comunicare se stessa: possiede un’anima umanamente aperta. Amica della solitudine, dirà lei, ma non meno bisognosa di “vasi comunicanti” a livello umano». E poi scrive per far nascere nuove fondazioni, comprare e vendere, discutere di problemi giuridici e di vocazioni, per selezionare priore e confortare consorelle, negoziare con la corte di Madrid e con Roma, regolare matrimoni, scambiare regali e ricette, ecc.

Teresa scrive sempre lettere «personali» e mai generiche («La premessa che regola e motiva il dialogo in ogni sua lettera è più elementare: “parliamo” della vita che viviamo»), su carta «generosa» nel formato (generalmente cm 31 x 21) e di qualità, le data con numeri romani, ma omette l’anno e le accade di confondersi («A questa lettera posi la data del 10 e invece mi pare che sia il 12»); le firma «Teresa di Gesù» e a volte aggiunge «carmelitana»; il testo quasi sempre autografo (solo quando è stanca o non sta bene si risolve a dettare) spesso prosegue oltre la firma con poscritti («Non è raro il caso in cui si aggiungono due o tre poscritti successivi: uno dopo la data, prima della firma, un altro a continuazione della firma, un altro infine ai margini, laterale o frontale», c’è sempre qualcosa in più da dire, la comunicazione non si chiude…); pone molta attenzione all’indirizzo, soprattutto quando il destinatario non appartiene alla cerchia più intima («Anche per il titolo di una lettera sarebbe necessario oggi che si facesse scuola»), tanto che capita che lo lasci in bianco («non lo metto per timore di sbagliare») e chieda ad altri di completarlo; le sigilla con il suo monogramma: le lettere JHS maiuscole e coronate da una croce sopra la H.

L’elenco dei destinatari ha la massima estensione immaginabile, dal re Filippo II al fratello Lorenzo e al nipote Lorenzino – e parliamo sempre delle lettere sopravvissute, perché interi carteggi sono andati dispersi e poi perduti (ad esempio quello con san Giovanni della Croce, perdita inestimabile), anche perché lei non conservava le lettere ricevute e molti autografi sono stati sforbiciati per ricavare compilazioni di frasi edificanti o reliquie da frammenti di carta recanti la sua firma («Ciò che quella donna mistica diceva nella maggior parte di esse era molto distante [dai suoi scritti spirituali], erano cose così semplici, così della vita di tutti che la reliquia di carta prevalse sul messaggio»). Quando il sospetto che la corrispondenza potesse essere intercettata e mettere in pericolo lei o i suoi corrispondenti, prestava enorme attenzione a corrieri e portalettere e ricorreva ai famosi «cifrari», in particolare con il p. Gracián, carmelitano: così i gesuiti diventano i «corvi», le carmelitane scalze le «farfalle», i carmelitani calzati i «gatti» o gli «uccelli notturni», san Giovanni della Croce «Seneca» e Gesù «il Vetraio»…

Quando i Carmeli crescono di numero si intensifica anche l’attività epistolare e «tutto ciò che forma la trama della vita quotidiana in un gruppo di religiose claustrali si assomma e fluisce attraverso il carteggio che va da un Carmelo all’altro», senza che questa mole di scambi metta in ombra la sua vocazione mistica o intralci la vita religiosa. Anzi – e l’aspetto fondamentale di cui dicevo è perfettamente riassunto in questa frase del p. Álvarez: «Proprio all’interno del gruppo monacale che ha riunito intorno alla sua persona, pone in moto uno stile di fraternità e convivenza che esige la comunicazione umana dotata della stessa forza della comunione negli ideali mistici. Ogni suo Carmelo è un gruppo di persone aperte verso le due dimensioni: la comunione mistica dell’ideale contemplativo e la comunione umana di ciascun giorno con le sue gioie, i suoi problemi e le sue occupazioni».

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  1. Teresa di Gesù, Dottore della Chiesa, Epistolario, introduzione e note di T. Álvarez, traduzioni di L. Falcone e F. Puttini, Edizioni OCD 1982.
  2. Tomás Álvarez (Acevedo, 1923 – Burgos, 2018), entrato giovanissimo nell’Ordine del Carmelo Teresiano, è stato docente alla Pontificia Università Teologica del Teresianum dal 1950, ha curato l’edizione critica delle opere della Santa, di cui ha curato anche la pubblicazione in fac-simile degli autografi. Di lui, nel 2005, Jesús Castellano Cervera ha scritto: «La vocazione teologica di p. Tomás Álvarez si è orientata ben presto, e provvidenzialmente, verso lo studio di santa Teresa di Gesù. Egli è senz’altro non solo il più grande specialista vivente nella dottrina della Santa, prima Dottore della Chiesa, ma uno dei più grandi teresianisti della storia».

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