Viaggi (Reperti, 68-69: Baretti; Luzi)

68. Nel settembre del 1760 Giuseppe Baretti visita il convento francescano di Mafra, lo smisurato complesso («non credo vi sieno dieci edifizi maggiori di quello sulla schiena del nostro globo») fondato dal re Giovanni V e la cui costruzione, iniziata nel 1717, sarà poi al centro del romanzo di José Saramago, Memoriale del convento. La visita è raccontata in una delle Lettere familiari a’ suoi tre fratelli: Filippo, Giovanni e Amedeo, in realtà mai spedite e pubblicate nel 1762-631. Il Baretti si dilunga, comprensibilmente, sulle due spropositate biblioteche del convento, non senza però tralasciare alcune osservazioni sull’edificio e sui suoi abitanti che, come si suol dire, sono assai «gustose». Si diceva delle dimensioni, e «che sia un convento capace, ve lo dicano trecento padri e centocinquanta conversi che contiene, tutti francescani dal primo all’ultimo»; per non parlare dei lunghissimi dormitori e delle celle, che sono «stanze da prelati anzi che celle da frati»; e poi il sontuoso refettorio, dove il Baretti entra «poco prima che i religiosi si mettessero a tavola». E tu guarda: «Ogni due padri avevano un bel boccale di maiolica pieno di vino e un gran pane; e sur un tagliere di legno del Brasile sei buoni fichi e due belle pere e un grappol d’uva e un limone per ciascuno. Le lor pietanze mi dicono che sono tre, e tutto a spese del re». Che se uno fa due conti sono 900 fichi, 300 pere un bel tot di chili d’uva e 300 limoni pro die

* * *

69. Durante il viaggio immaginario che Mario Luzi fa compiere a Simone Martini e ai suoi compagni di strada da Avignone a Siena, nell’imminenza della morte del pittore nel 13442, i pellegrini vengono accolti per una sera in un monastero di clausura femminile, presumibilmente in terra francese. La poesia che «registra» la serata si intitola Tappa e ricovero e dimostra la esatta e sentita partecipazione di Luzi al «fatto monastico», e sembra peraltro sgorgare da una circostanza odierna e non da una visione plausibile del XIV secolo. A cominciare dal memorabile attacco:

E intanto lievemente

le monache – poche e invisibili –

preparano per gli ospiti profani,

e le aprono, un seguito di camere,

le stesse dove vissero

la regola e le vive ispirazioni

di quella plenaria solitudine

esse, e prima di esse

le altre innumerabili

che furono a quel macero

nei lunghi secoli dell’eremo

Non siamo forse di fronte all’arrivo di qualche nostro contemporaneo presso la foresteria di un monastero ormai quasi deserto che ricava qualcosa dall’ospitalità? Non è di oggi il muto e rispettoso sconcerto di fronte a quel vuoto (la «vuota arnia della pura ed infima pazienza») carico di vicende passate e di passate presenze? Odierno è anche il catalogo che Luzi fa di quelle «presenze», fitto di acutissime scelte di termini:

Alcune qui si persero,

abbuiarono qui il loro cielo

in minimi puntigli, qui si accesero

alcune d’acrimonie e invidie, alcune

si spartirono in letizia

tra opera e preghiera, qui bruciarono

altre una per una

le scorie dell’infelicità

e temprarono

lo spirito allo spirito, volarono

alto – o il paradiso era già in loro…

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  1. Giuseppe Baretti, Lettera XXVIII, in Opere scelte, a cura di B. Maier, vol. II, Utet 1972, pp. 201-207. Non si creda ch’io sia abituale lettore del Baretti, per quanto non mi dispiacerebbe, diciamo che mi sono imbattuto in questa divertente «lettera» per caso.
  2. Mario Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Garzanti 1994, pp. 67-68.

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