L’ebbrezza di Dio (La «Scala del divino amore»)

 Già il fatto che questa «gemma della letteratura mistica occitana» ci sia pervenuta grazie a un unico manoscritto (ora alla British Library) esercita su di me, lettore moderno, un’intensa seduzione e provoca una vaga forma di nostalgia – nostalgia per tutto quanto è andato invece perduto e che non potrò, quand’anche ne avessi il tempo, mai leggere. Se poi si considera l’implicita e profonda «rivalutazione» del mondo fisico (la «redenzione della natura», com’è definita nell’introduzione) che percorre queste pagine, un atteggiamento di esatta derivazione francescana, si può capire il trasporto prodotto dalla lettura di un’opera soltanto apparentemente minore. La Scala del divino amore1, infatti, breve trattato databile intorno al 1300 scritto da un terziario francescano di tendenza «spirituale» (dalle parti di Pietro di Giovanni Olivi), celebra la presenza sublime di Dio come la si può percepire nelle sue creature; per la precisione la dolcezza, la soavità, il profumo, l’armonia e la bellezza al massimo grado come possono essere colte mediante i cinque sensi – cinque sensi che, prima di essere spirituali, sono appunto quelli fisici: rispettivamente gusto, tatto, odorato, udito e vista, il più nobile: «Affermo infatti che in ciascuna delle creature che si trovano sotto il cielo vi è dolcezza da assaporare, soavità e profumo da sentire, canto da udire, bellezza e candore da vedere».

La «scala» è composta da cinque gradini, i cinque sensi, salendo correttamente i quali si può fare esperienza della bellezza presente in tutte le cose (declinate nei quattro elementi fondamentali: «Affermo che tutte le creature di questo mondo sono composte di terra, d’acqua, d’aria e di fuoco, e che in ciascuno di questi quattro elementi vi è dolcezza, soavità, profumo, melodia di canto, bellezza e candore»), ascendendo al Palazzo d’amore e avvicinandosi progressivamente a Dio, origine eterna e inesauribile di quella bellezza. Nella Scala convergono una quantità di spunti e suggestioni derivanti dalla letteratura patristica (la scala di Giacobbe, tanto per dirne una), come dalla spiritualità del beghinaggio, come ancora dalla poesia trobadorica (l’«officio d’amore») o dai bestiari medioevali o dalla trattatistica dei teologi cistercensi, e così via.

Al di là di tale stupefacente intreccio di temi, di cui peraltro dà conto l’eccellente introduzione di Francesco Zambon, quello che colpisce subito, appena dopo il prologo, è l’evidenza, la concretezza della «bontà» del mondo restituita dalle immagini che scorrono in queste poche pagine: «Affermo che nella terra vi è immensa dolcezza da assaporare, perché dalla terra spuntano le piante e dalle piante nascono i fiori e dai fiori si trae il miele. Inoltre dalla terra spuntano gli alberi e dagli alberi nascono i frutti che sono così dolci»… E poi, in un flusso ininterrotto: gli altri cibi squisiti di cui vive l’uomo, la dolcezza della rugiada, quella del fuoco che cuoce i cibi (che sono sgradevoli quando sono crudi), l’acqua molle e soave al tatto (per questo ci si bagna così volentieri in essa), le erbe con cui si preparano condimenti e pomate (perché certamente il profumo delle spezie e degli unguenti e quello dei fiori e dei frutti non sarebbe profumo se dentro non vi fosse il profumo di Dio), il calore che esalta gli aromi (le mele profumano molto più intensamente quando si tengono in mano di quanto non facciano dentro a una cassa), i metalli con cui si costruiscono le campane e il legno con cui si costruiscono le viole e i liuti, gli uccelli canterini ; e poi la luce, la luce! I colori, il sole, lo splendore delle stelle, la luce del giorno che ci consola della notte…

È nel capitolo dedicato all’udito (il quarto gradino) che l’autore si avventura in una serie di immagini arditissime, quando ad esempio parla della «ballata» che Dio ha incominciato creando il mondo, e che risuona nel cuore degli uomini, fatto appositamente «cavo e rotondo» e dal quale «escono vene che si diramano per tutto il corpo, più delicate e sottili che corde di viola». O quando, parlando del meraviglioso rumore delle onde del mare (la gran voce delle acque), afferma che «come le onde si rovesciano una sull’altra e fanno agitare il mare e sommergere le rive, così le onde dell’amore di Dio si scontrano e si rovesciano una sull’altra, facendolo agitare come un folle o un ubriaco [!] e riversarsi sulle rive, tanto da non rispettare più ragione né ordine né misura».

Tanto da non rispettare più ragione né ordine né misura.

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  1. Scala del divino amore, introduzione e traduzione di F. Zambon, commento e note complementari di C. Di Fonzo, Paoline 2019.

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