La copia in mio possesso del Commento ascetico al capo VII della Regola di san Benedetto del benedettino Jean de Monléon1 è datata 1958 ed è consumata dall’uso di tanti ignoti lettori che mi hanno preceduto. Religiosi e religiose, presumo. Ed è questo il motivo per cui ho letto un’opera che mi sento di definire in larga misura «superata», per quanto improprio sia l’uso del concetto di «superato» nel caso della letteratura monastica: nulla è mai del tutto «superato» come si può dire di un trattato di fisica della fine dell’800. L’ho letta perché innumerevoli persone si sono identificate con il pensiero che vi è espresso, vi hanno per così dire sinceramente creduto. Superata, in realtà, è forse dir poco; di certo pre-conciliare (ma è stata ristampata nel 2021, e non a caso dalle Edizioni Piane, la casa editrice della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata da mons, Lefevre) e percorsa da un evidente tratto antimodernista (nonché punteggiata da qualche osservazione vagamente antisemita e razzista).
La scelta di commentare non la Regola nella sua interezza, bensì un solo capitolo, quello dedicato all’umiltà, il più lungo, è sintomatica. Se infatti, teologicamente, l’umiltà è preceduta da altre virtù, «nell’ordine pratico questa virtù è la prima perché… rimuove quell’ostacolo che con la sua presenza arresta la grazia di Dio», cioè l’orgoglio, «causa unica di tutte le miserie di cui soffre il mondo e anche il principio di tutti i nostri traviamenti». Da qui, il Commento discende e al tempo stesso ascende i dodici gradini dell’umiltà (suddivisi secondo lo schema che riporto qui a fianco) con un tono prevalente di ferrea durezza che mi pare alieno dallo spirito con il quale san Benedetto ha steso la sua Regola. Già, «perché la nostra vita religiosa non è affatto una bella strada carrozzabile che permette di salire comodamente verso la perfezione in una vettura ben molleggiata; è invece un sentiero ripido, stretto, scabroso, nel quale si va avanti solo aiutandosi con le mani e con i piedi».
È un vero tour-de-force, del quale si può dare solo qualche esempio e dal quale si esce, per usare un’espressione dell’autore, «piallati, raschiati, modellati e lisciati». Noi, che dimentichiamo che siamo delle creature effimere, inette, cui il demonio ronza continuamente intorno, capaci di una varietà di peccati quasi infinita, negligenti, accecati, incapaci di sorvegliare i desideri cattivi che salgono dal fondo più oscuro della nostra natura (peraltro guasta); pronti a scaricare la responsabilità delle nostre colpe (è stato il caso, la sfortuna, il vento, il demonio, il gatto) e ad assolverci con la scusa del così-fan-tutti (state ben attenti che il Signore ha detto: «Io sono la verità», e non: «Io sono la consuetudine»); che inseguiamo fantasie, frivolezze, oscenità; che ridiamo e facciamo ridere, che ci guardiamo intorno facendo entrare di tutto attraverso gli occhi; che ci sbagliamo in continuazione…2
E invece dovremmo rifuggire dall’uomo vano, che si lascia trascinare dal movimento spontaneo della sua natura; dovremmo calpestare incessantemente la nostra volontà con l’obbedienza, l’unico mezzo per riparare il peccato di Adamo (anche perché Dio non ci domanderà conto delle azioni fatte per obbedienza [e già…]); dovremmo accettare le ingiurie, le sofferenze, le prove, spogliandoci del mantello delle illusioni di cui ci rivestiamo, estinguendo il prurito della singolarità, il desiderio di farsi centro… e d’attirare sopra di sé l’attenzione degli altri3; basta con tutto questo «io», che se è odioso perfino in letteratura, quanto più lo sarà presso coloro che pretendono cercare la perfezione!; dobbiamo fonderci nello stampo della Regola e purificarci con la forma di penitenza più grande ed efficace, la vita in comune.
Giobbe tra i primi metteva in guardia l’uomo vano che si crede libero «come il puledro dell’asino selvatico»: perché l’asino selvatico, si chiede d. Monléon? Perché non è come quello domestico, condannato a tirare il carretto e portare il basto, no, lui nasce libero, «niente lo ostacola, niente lo trattiene… nessuno gli impedisce di seguire i movimenti della sua natura; può galoppare in pianura, ruzzolarsi nell’erba, correre all’impazzata con i suoi simili, mangiare, bere, dormire come meglio gli sembra. [Allo stesso modo l’uomo vano] non considera la vita che come un prato fiorito dove gli è permesso di correre e divertirsi secondo l’attrattiva del momento».
Be’, anzitutto, chi ha mai detto che la vita sia un prato fiorito; e poi, ammettiamolo, mica male qualche giorno seguendo la routine dell’asino selvatico, no?
______
- Jean de Monléon, I dodici gradi dell’umiltà. Commento ascetico al capo VII della Regola di san Benedetto, traduzione dei monaci di S. Maria del Monte di Cesena, Edizioni Abbazia di Viboldone 1958.
- «La nostra memoria non è stata fedele, la nostra logica ha zoppicato, il nostro ragionamento ha trascurato dei dati importanti, la nostra immaginazione soprattutto, e le nostre passioni, hanno deformato, a nostra insaputa, ciò che pretendevamo, con molta buona fede, aver visto o inteso.»
- «Questo difetto lo ereditiamo dalla nostra madre Eva, di cui la primissima deviazione, nel Paradiso terrestre, fu probabilmente il piacere che provò nel vedere che il serpente si interessava di lei.»
