Una buca nel terreno

C’è una breve nota posta tra parentesi, quasi di sfuggita, nel testo di Georges Duby dedicato a san Bernardo che mi ha colpito particolarmente: un dettaglio biografico che non conoscevo, assai crudo, dato senza fonte, ma di non difficile reperibilità. Deriva infatti dal capitolo VIII della Vita di san Bernardo di Chiaravalle di Guglielmo di Saint-Thierry, un capitolo di estremo interesse intitolato Della grande severità della sua vita, e della sua indefessa applicazione in mezzo ai continui intralci dovuti alla sua salute compromessa (De magna vitae ejus severitate, et indefesso inter continua fractae valetudinis incommoda laborandi studio). Ecco il passo in questione:

«Alcuni medici lo visitarono e trovarono ammirevole il suo modo di vivere, dicendo che imponeva alla sua natura sforzi simili a quelli di un agnello attaccato a un aratro e forzato a lavorare. Il suo stomaco distrutto gli faceva vomitare frequentemente il cibo crudo che non aveva potuto digerire, cosa che cominciò a mettere a disagio gli altri, in particolar modo durante l’ufficio nel coro; nondimeno non abbandonò del tutto il consesso dei fratelli, ma, avendo fatto scavare una buca nel terreno, vicino al suo posto, soddisfò in tal modo finché poté quella penosa necessità.»1

In quella «buca nel terreno» («in terra receptaculo») si raccoglie anche, se così si può dire, simbolicamente, la mia complicata «ammirazione» per san Bernardo (e sarebbe necessario definire con accuratezza cosa significa provare ammirazione per una figura lontana nel tempo, il cui profilo ho composto mettendo assieme frammenti di una conoscenza approssimativa). Al di là, infatti, della banale osservazione che non sono acceso dalla medesima fede, molti sono gli aspetti che mi dovrebbero allontanare da lui: e invece. E invece l’attrazione è lì, innegabile, per un essere umano perennemente in rivolta contro se stesso e il mondo («contro tutto», dice Duby), e tuttavia instancabilmente attivo proprio in quel mondo, feroce e dolcissimo, comprensivo ed esigentissimo, umile e consapevole della propria autorità, negligente di sé fino all’autodistruzione e preoccupato della propria traccia lasciata ai posteri – e forse non immune dal desiderio di essere «il migliore».

E mi conforta che lo stesso Guglielmo spenda buona parte del capitolo per una strana «giustificazione» degli eccessi di rigore nel comportamento di san Bernardo; strana perché, mentre ne dichiara più volte l’inutilità, a fronte di quello che Bernardo ha compiuto («nessuno oserebbe condannare colui che Dio giustificò operando con lui e tramite lui tante cose sublimi»), continua a svolgerla, a volte con eleganti giochi di parole: «Se gli imputiamo un eccesso di santo fervore, questo eccesso certamente susciterà il rispetto delle anime pie, e coloro che sono guidati dallo spirito di Dio temeranno di imputare eccessivamente questo eccesso al suo servo».

Ricordando gli anni passati da Bernardo a Cîteaux, Guglielmo ha già fatto un’altra osservazione che mi pare riveli il suo pensiero. Prima di ributtarsi nelle rinunce forsennate, a Cîteaux, infatti, piacque a Dio che Bernardo si sia abituato un po’, uomo lui stesso, a vivere con gli uomini e abbia imparato a comprendere le debolezze umane; che in latino, più concisamente, suona così: «Postquam didicit aliquatenus et consuevit homo cum hominibus esse».

Cioè dopo aver imparato in qualche modo ed essersi abituato a essere un uomo con gli uomini.

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  1. Cito, traducendo come posso, da La Vie de saint Bernard, par Guillaume de Saint-Thierry, continuée par Arnauld de Bonneval et Geoffroi de Clairvaux, traduit du latin par F. Guizot, nouvelle édition préparée par N. Desgrugillers, Editions Paleo 2010, pp. 55-60.

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