La provocazione del breve studio di Giorda (studiosa di storia delle religioni) e Hejazi (antropologa e giornalista) è evidente sin dal titolo: provare a osservare il monachesimo contemporaneo come una delle diverse forme di «spiritualità senza Dio» che caratterizzerebbero la modernità. Sganciato da una dimensione esclusivamente trascendente e non ridotto alla sola variante cattolica, il monachesimo «diventa – assieme ad altre pratiche di spiritualità – una delle possibili scelte individuali di costruzione del mondo e della propria vita, di autorealizzazione, di perfezionamento del sé». Il «senza Dio» va preso appunto come provocazione, per spostare l’accento sul significato pratico della via monastica, «un’alternativa agli stili di vita contemporanei, e che quindi vuole farsi anche arte di vivere nel presente».
Secondo le due studiose proprio nel momento in cui i monasteri si consolidano come alternativa al mondo «di fuori», con quel mondo inevitabilmente dialogano, in maniera via via più stretta, ne hanno bisogno, da un punto di vista sia materiale sia simbolico. Lo scambio è intenso, tanto che «ci si deve domandare quanto i monaci e le monache che vivono nel mondo secolare del III millennio siano stati permeati dallo sguardo, a volte indiscreto, del mondo, da diventare ciò che quel mondo si aspetta che siano». Tale scambio avviene in numerosi «luoghi», inediti rispetto alla tradizione, ad esempio quello del «turismo religioso» e dell’ospitalità, che si declina moltissime forme: gite domenicali, visite più approfondite, ritiri veri e propri, e poi corsi, conferenze, concerti; oppure quello di Internet, che è un aspetto molto dibattuto dalle comunità monastiche stesse, anche qui con una varietà di forme che rispecchia il mondo «di fuori»: siti, pagine Facebook (di comunità o personali), canali Youtube, blog, shop online, ecc. Ogni comunità si viene a trovare al centro di una rete di relazioni, e ne è responsabile oltre che protagonista come gli altri partecipanti. Anzi, nel momento in cui il monastero diventa centro di attrazione e di diffusione – di parole, cose, stili, pratiche – viene quasi a configurarsi una specie di audience (spesso legata alla presenza di figure carismatiche), un «pubblico, un gruppo di persone che lo frequenta e che passa del tempo in quel luogo non solo perché è monastico tout court, ma perché è proprio quel luogo, ha proprio quel gruppo umano, vive quella spiritualità». Di quale separazione si può parlare di fronte a questi fenomeni?
Giorda e Hejazi si concentrano quindi su due esempi specifici (giustamente, poiché di un insieme di comunità individuali si parla e non di un movimento astratto): il monastero cistercense maschile «Dominus Tecum» di Pra ‘d Mill, presso Bagnolo Piemonte, e il monastero misto buddhista zen Shobozan Fudenji, presso Tabiano, in provincia di Parma. È un confronto interessante – di scelte architettoniche, di strutture degli spazi, di gestione del tempo, di rapporti con l’esterno –, al termine del quale le studiose chiudono il cerchio in un modo che sicuramente molti non condivideranno, ma che mi pare stimolante: per chi si avvicina a questi luoghi «si potrebbe dire che non importa nemmeno il tipo di religione, non vi è una profonda riflessione sulla teologia che sorregge la spiritualità, ma si condividono delle pratiche, degli esercizi, come la sveglia al mattino presto, i pasti, le liturgie; l’importante è esserci, starci, prendere parte, molto più che comprendere».
Anche i monaci e le monache di oggi, concludono le autrici, sono ovviamente nel pieno della trasformazione, la loro alternativa si incarna comunque dentro il mondo, e «al cambiare del mondo, cambia anche il monachesimo e cambiano anche i monaci. In questo senso, esistono delle pratiche, esiste un senso comune riferibile al monastero, ma non esiste un’essenza della vita monastica».
Maria Chiara Giorda, Sara Hejazi, Monaci, uomini senza Dio? Pratiche, senso essenza, Mimesis 2014.
Non so trovare un modo più gentile di questo per dire cosa penso delle conclusioni delle autrici: sciocchezze.
Posso dire che mi aspettavo il tuo commento? 🙂
Devo ammettere, in effetti, che in questa fase preferisco ascoltare il parere di chi vive una determinata esperienza, più che quello di colui che la osserva, la «studia». C’è però uno spunto nel libretto che mi ha colpito e riguarda il gonfiarsi, il lievitare del discorso che sul monachesimo fanno gli stessi monaci, sollecitati per così dire dal mondo che li circonda. Credo che si possa concordare almeno sul fatto che le reazioni delle comunità alle nuove realtà, diciamo così, coprano un ampio spettro di varianti, con forme che talvolta fanno pensare.
Saluti e grazie.
In effetti c’è un lievitare del discorso sul monachesimo, frutto di un’epoca votata alla comunicazione, di una sete di sacro, o di chissà che altro. Tuttavia trovo assolutamente fallace dal punto di vista metodologico mettere a confronto esperienze così diverse come un monastero cattolico e un monastero misto buddista zen. Chiaro che nel secondo caso sia insita una debolezza della figura di un Dio personale, a favore delle pratiche. Non hanno bisogno le autrici di scomodarsi ad andare a verificare, è lo specifico di quelle tradizioni religiose. Ma anche rimanendo nell’ambito del monachesimo cristiano, dovrebbero sapere le autrici della lunga discussione sull’eventuale esistenza di una teologia monastica e in cosa questa possa consistere: il monachesimo non è mai stato primariamente il luogo della riflessione teologica (anche se talvolta ha prodotto delle vette in questo ambito), ma sempre il luogo privilegiato di un rapporto con Dio, attraverso appunto la liturgia, la preghiera, la comunità, l’obbedienza, cioè quella che le autrici definiscono “le pratiche”. Il gruppo umano che frequenta i monasteri (di cui faccio parte, e in particolare un paio di volte all’anno mi reco proprio al monastero Dominus Tecum, anche se non è il mio luogo di elezione) è composto da persone -e ne conosco alcune- che cercano forse cose diverse tra loro: chi un momento di pace, chi una confessione, chi una messa curata, chi un momento di raccoglimento, ma certamente posso testimoniare che nessuna di queste mi ha mai dato l’impressione che non importasse il tipo di religione proposta in quel luogo.
Direi che la prima fioritura che mi sento di segnalare è quella di studi sul monachesimo condotti da persone che non ne conoscono neppure a grandi linee la storia. Di più: che non conoscendo neppure il catechismo della Chiesa cattolica, difficilmente sanno distinguere tra ortodossia ed eterodossia di una comunità cattolica, figuriamoci addentrarsi in spericolati paragoni con tradizioni religiose del tutto diverse.
Grazie per l’interessante recensione di questo libro, che prevedo di acquistare. Quella delle pratiche in forma “atea” è un tema che mi coinvolge.
Grazie a te.
E’ un volumetto davvero breve, e devo dire che la riflessione ne risulta non del tutto soddisfacente.