«Essene»

La prima cosa che mi ha colpito sono state le facce dei monaci, per la precisione le barbe, le basette, i baffi, i capelli lunghi, i codini. Non mi sarei dovuto stupire, perché è il 1970 e siamo negli Stati Uniti e non si capisce perché l’atmosfera di quegli anni non avrebbe dovuto in qualche modo attraversare le mura di un monastero benedettino.

Uscito nel 1972, Essene fu realizzato dal documentarista statunitense Frederick Wiseman nel monastero di Three Rivers, nel Michigan, una «comunità maschile della Chiesa episcopale che vive sotto la Regola di san Benedetto» (così recita il sito della St. Gregory’s Abbey, che credo ne sia l’attuale denominazione). Girato in bianco e nero, con un apparente stile da cinéma vérité (ma Wiseman rifiutò decisamente la definizione), il film ci fa partecipare a diversi momenti della vita comunitaria quasi fossimo seduti in mezzo ai monaci o camminassimo con loro per i campi circostanti o fossimo in chiesa per le ore canoniche (peraltro aperte ai fedeli della zona). Soprattutto ce li fa ascoltare, i fratelli.

Mi hanno colpito gli aspetti superficiali, quelli tricologici, come dicevo, o la visita al drugstore per l’acquisto di un pelapatate, o l’ufficio in parte gregoriano in parte accompagnato da una chitarra rigorosamente West Coast, o ancora il taschino con le penne american style e le sigarette belle tranquille. Mi hanno colpito le molte conversazioni a due, dalle quali emergono con sincerità le difficoltà di convivenza, le antipatie generate proprio dalla prossimità (un monaco, ad esempio, non è molto contento dell’uso del nome di battesimo tra i fratelli); e poi le riunioni e i «seminari» condotti dall’abate (il fantastico father Anthony) con tanto di lavagna («Dovresti farmi degli esempi specifici», «Ma se te ne ho fatti centinaia negli ultimi diciott’anni…», «E tu fammene ancora»); e poi le strane sedute di preghiera collettiva (di autocoscienza, verrebbe da dire) ricche di momenti di fisicità – abbracci, carezze, buffetti. Si respira in effetti un’aria da «comune» anni Settanta (per quanto ne possa sapere io), in particolare nei discorsi che mi hanno ricordato quei fantastici ed estenuanti discorsi che si tenevano nei «collettivi», un’aria assai diversa rispetto ad altre testimonianze visive più recenti di vita monastica.

Il regista è molto discreto. Si è limitato a scegliere pochi episodi non brevi e a metterli in una successione che ritma con precisione la dialettica tra individuo e comunità. Le sequenze non hanno stacchi, ovviamente, e la macchina da presa non fa che avvicinarsi e allontanarsi, stringere e allargare, dal gruppo all’occhio, dalla figura in piedi alle mani intrecciate, come se volesse trovare nel dettaglio lo stesso sentimento dell’insieme – dell’insieme umano, perché il contesto è quasi assente o comunque anomimo, come un elementare palcoscenico.

Quello che Wiseman è riuscito a cogliere è la volontà e il lavoro collettivo profusi per far prosperare una comunità che, per quanto «speciale», mantiene ampi tratti comuni e universali: per l’impegno a vivere insieme secondo regole (in questo caso una ben precisa Regola) che non annullino l’individualità, per il peso della routine, per il bisogno di confronto e accettazione e conforto reciproci, per il sogno di volersi tutti bene, per quanto umanamente possibile.

Essene (1972), di Frederick Wiseman.



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