Sono sempre stato un fan di Teresa d’Avila, in virtù soprattutto di quella che a me sembra una doppia natura: la mistica e la donna pratica. Così, la leggo spesso, in particolare la seconda, quella delle Fondazioni, delle Costituzioni, del Modo di visitare i monasteri.
Siamo nel 1576, Teresa ha 61 anni, le ha viste tutte, si potrebbe dire, e su richiesta del provinciale e suo confessore p. Jerónimo Gracián de la Madre de Dios scrive un breve trattato sul comportamento che devono tenere i padri visitatori dei conventi carmelitani. Il Modo, appunto: «Una perla preziosa per chi è responsabile del buon andamento di una comunità monastica… Sono pagine che fanno conoscere il realismo della vita comunitaria… e, al tempo stesso, rivelano spontaneità, apertura e penetrazione psicologica» (Giovanna della Croce). Esattamente. Sono 55 paragrafi, chiusi tra un’obbligatoria dichiarazione di inadeguatezza e un’altrettanto obbligatoria attestazione di sudditanza al padre spirituale, che grondano pragmatismo e intelligenza della «cosa» e del suo scopo. Si può dire, inoltre, che pur rivolgendosi agli ecclesiastici, maschi, chiamati al compito di sorvegliare le monache, e dicendo di essersi ispirata a un modello concreto, Teresa scriva quello che lei farebbe, prendendo «per mano» i suddetti maschi e introducendoli nella clausura.
È evidente come ogni frase derivi da esperienza diretta. Come quando invita a valutare con precisione le «qualità manageriali» delle priore: il visitatore, amorevole come un padre, ma inflessibile come un capo, rimuova subito le incapaci («Perché molte potranno essere molto sante ma non adatte a fare le priore»); si faccia mostrare i registri contabili («Non so se questo riguardi cosa temporale o spirituale. Ciò che da principio volevo dire è che occorre esaminare con molta cura e attenzione i libri delle spese») e riprenda le «spendaccione»; non si mostri loro amico, né faccia preferenze; non ceda di fronte a piccole eccezioni o innocue richieste (occhio che «noi sappiamo caldeggiare assai bene i nostri desideri»); stia in guardia con le «anime soggette a malinconia», con le quali «avrà molto da fare».
Teresa insiste molto sullo «scrutinio», cioè l’interrogatorio individuale e senza testimoni delle monache. La raccolta di informazioni dev’essere minuziosa, bisogna ascoltare attentamente perché spesso a una sorella «sembrerà vero quello che non lo è e ne caricherà le tinte»; occorre mettere a confronto, verificare, pesare le testimonianze, istituire un sistema virtuoso di sostanziale delazione coperto da «rigoroso segreto» (a me, Teresa, «è accaduto di costatarlo molte volte, e con priore che erano grandi serve di Dio, delle quali io avevo tanta stima, che mi sembrava impossibile non prestar loro fede; ma poi, trattenendomi alcuni giorni in monastero, restavo sbalordita nel vedere proprio il contrario di quanto mi era stato detto… Pertanto sono ormai convinta di non dover credere a nessuna fino a quando non mi sia bene informata della situazione»).
Il visitatore si farà mostrare i locali, controllerà il canto, l’abito (e se qualche cosa non va, «la faccia bruciare in sua presenza»), l’eloquio, il lavoro, le novizie, le converse. Una selva di istruzioni, insomma, perché «siamo ancora su questa terra» e il demonio è sempre in agguato, primo fra tutti quello della «forza dell’abitudine, così tremendamente propria della nostra natura», poi quello della mormorazione, quello della tentazione, della rilassatezza , e così via. Perché io, Teresa, «piuttosto che un monastero giunga a tale estremo, vorrei nel modo più assoluto vederlo distrutto».
Teresa d’Avila, Modo di visitare i monasteri, in Opere complete, a cura di L. Borriello e G. della Croce, Paoline 1998.
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