Dopo le asprezze dell’«Eremita» precedente, e le mie chiusure nei suoi confronti, mi ha fatto bene leggere il resoconto di un’eremita di pasta completamente diversa qual è stata Adriana Zarri (come quando si parla con una persona della quale non si condividono le idee ma si capisce la lingua, e poi ci si pensa). Un eremo non è un guscio di lumaca raccoglie soprattutto i testi di Erba della mia erba, le lettere dall’eremo di Molinasso (dalle parti di Ivrea) già apparse in volume nel 1981, cui si aggiungono altri testi sparsi (tra l’edito e l’inedito) e poche pagine inedite, scritte a Cà Sàssino, ultima residenza, sempre presso Ivrea, dove la teologa e scrittrice è morta nel novembre del 2010. Mi ha fatto bene anzitutto perché mi ha indirettamente mostrato la stupidità di alcune considerazioni che ho svolto qui in passato, poi perché ho visto con chiarezza le qualità di una scelta solo in apparenza simile a quella dell’«Eremita» – d’altra parte, come ricorda l’autrice, «ciascun eremita fa regola a se stesso».
Mi pare infatti che la visione, e anche la teologia da quel che posso capire, che sta dietro la scelta eremitica di Adriana Zarri sia di segno quasi opposto: una scelta di piena adesione al mondo e alla comunità degli esseri umani, vissuta però nella solitudine, che è cosa ben diversa dall’isolamento: «Un eremo non è un guscio di lumaca, e io non mi ci sono rinchiusa; ho solo scelto di vivere la fraternità in solitudine. […] Non si sceglie la solitudine per la solitudine ma per la comunione, non per star soli ma per incontrarsi, in un modo diverso, con Dio e con gli uomini». La tentazione di considerare queste frasi alla stregua di un volteggio linguistico è forte, e tuttavia è l’esistenza stessa di chi le ha scritte che dà loro sostanza, la sua vicenda pubblica prima, durante e dopo gli anni del Molinasso. L’eremo di Adriana Zarri era certamente isolato ma aperto a tutti, ai contadini vicini, agli amici, agli ospiti occasionali, ai tanti animali (e anche ai malintenzionati, ahimè); era un luogo di preghiera, modellata in parte sulla liturgia delle ore, ma non di penitenza e macerazione; era un luogo di contemplazione, ma anche di lavoro (manuale e intellettuale). Un luogo dal quale il mondo non era cacciato fuori (tra l’altro radio, tv e giornali non sono mai stati esclusi), bensì accolto in una forma più intensa e concentrata, attraverso lo sprofondamento in una situazione radicalmente circoscritta: cascina, orto, stalla, cantina-cappella, bosco, freddo, caldo, pioggia, ieri, ora, la nuova stagione: «Io, comunque, sono qui».
Un «qui» che non esaurisce la nostra vicenda (e come potrebbe, per chi si disegna comunque in una prospettiva cristiana) e che tuttavia è già molto e non deve essere sperperato. La formula cui giunge la teologa è interessante: «Ci sarà, ci dovrà essere, vogliamo ancora che ci sia altro cammino e conquista e gioia; ma il futuro che resta da sperare non toglie che ormai il più ci è stato dato e ci sentiamo in una situazione di arrivo, di definitività. Io chiamo questo “definitività del provvisorio” perché la contingenza è già assunta a livello di assoluto». (L’eco sinistra, sociologica, che assume oggi questa formula forse sfuggiva alla teologa…)
Non sono certo di seguire fino in fondo questo discorso, anzi, ma, per tornare all’inizio, trovo comprensibile la lingua della credente Adriana Zarri, soprattutto nei pudori («è tanto più sano parlare di conigli piuttosto che, impudicamente, di nostro Signore che ci incontra»), nelle aperture («ora, se guardo l’orologio, vedo che è tempo di scendere. Forse pregherò fuori, anziché in cappella. Amo il tempio desacralizzato del mondo, proprio perché amo il mondo e lo trovo cattedrale degnissima di Dio»), nella rivalutazione dell’ordinarietà («un anonimato senza orpelli»), nell’abbraccio di tutti gli aspetti dell’esistenza, anche di quelli che si è scelto di non praticare.
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi 2011.
[Aggiungo, come in nota, una curiosità, una di quelle associazioni che scattano involontariamente. «Se non esiste questa disposizione all’accoglienza universale, è poi difficile aprire una finestra per far entrare Dio. Tutto, invece, il nostro essere deve farsi finestra, apertura, accoglienza»: una frase che, per un forte utilizzatore del famoso sistema operativo, acquista uno strano sapore.]