(la prima parte è qui)
«Qui c’è appena qualche solco, ma ben dritto: al punto da costringere alla conversione o al rifiuto.» Così l’«eremita» introduce le sue riflessioni, suddividendole in due parti, una preparatoria e distruttiva – delle nostre illusioni, delle nostre abitudini, della nostra individualità –, una più propedeutica alla comunione con la divinità. Se sulla seconda parte mi è impossibile dire alcunché, dalla prima mi sento chiamato in causa, e ammetto una strana ambivalenza. Riconosco cioè come mia, da un lato, l’avversione per quello che si può definire «accomodamento» nel proprio sedicente io, o anche «compiacimento spirituale» (tutto il volume è percorso da una netta critica verso certi aspetti della religiosità corrente), ma, dall’altro, non ne condivido la durezza, soprattutto quando l’orizzonte sembra svuotarsi di altri individui, dei compagni di strada.
La scelta fondamentale, secondo l’«eremita», è la via purgativa, che ci conduce alla consapevolezza della nostra fragilità e «malattia»: bisogna aprire il proprio cuore, e poiché non siamo in grado di farlo agli altri, il «deserto» è l’occasione per aprirlo a noi stessi, e ancor più al Signore. Bisogna gettare la maschera, riconoscere il «veleno» che è in noi (il peccato originale) e «rinunciare a realizzare una nostra personalità egocentrica, secondo progetti istintivi e idolatrici» (che sono opera dei «demoni progettisti»). Ora, non credo sia cecità di fronte al male non condividere questa antropologia negativa. L’alternativa non è «piacersi», come sostiene l’autore. Non amo i miei difetti: li soffro e cerco di correggerli; non amo miei appetiti: li indago, li assecondo o li respingo; non amo le mie opinioni: a esse, in realtà, sono sempre meno attaccato. Di certo, talvolta indulgo – me le faccio passare – ma non per questo ripongo piena fiducia in me stesso, e non sento il bisogno di un’istanza superiore per percorrere questa strada, l’istanza che semmai mi soccorre sono gli altri, tutti «gli altri», anche se non cerco a oltranza la loro compagnia.
«La dimensione umana peccatrice», prosegue l’«eremita», «è una dimensione deliberata e permessa dal Padre celeste. Essa è costitutiva della nostra esistenza.» Credo di capire, ma no, mi è sufficiente il concetto di debolezza animale (mortalità, ecc.) per contemplare il mio nulla. Un nulla che si gioca tutto qui, in questi limiti concreti di spazio e di tempo, e del quale sconto già qui la pena.
Le parole dell’autore si fanno via via più severe a mano a mano che l’opera di purgazione prosegue, in una curiosa mescolanza di aspetti atemporali e contingenti («il mondo serve alla Misericordia Divina come osservatorio, per poterci assegnare il posto più adatto dopo la nostra morte» (sic), «generazione perversa e traditrice come la nostra», «quando facciamo assegnamento sulle creature umane, comincia per noi un pungente purgatorio», «saremo felici solo per le nostre sventure» e così via), tanto che mi è sorto il dubbio che costui abbia sofferto esperienze molto negative in mezzo agli esseri umani per esprimersi con tale immotivata durezza.
Sulla seconda parte, quella più precisamente dedicata all’«orazione mistica», come dicevo non mi pronuncio, sarei del tutto inopportuno. Mi soffermo soltanto su due frasi che mi hanno colpito. La prima è una domanda: «Il lettore che sia giunto fin qui potrebbe domandarsi: tutto ciò non sarà frutto di autosuggestione?» Niente affatto, risponde l’«eremita»: «Non può essere la nostra fantasia a fingere di trovarsi alla Presenza di Dio». Scusi, perché no? La seconda frase è posta a conclusione del percorso quasi indecifrabile dell’orazione mistica, la comunione con Gesù Cristo, il «fondamento dell’essere cristiano»: «Fuori di questo, credetelo, per noi c’è il lucido nulla». Ebbene sì, preferisco il lucido nulla, che in ogni caso per qualche decina d’anni mi avrà dato parecchio da fare.
Sono stato confuso, in questo tentativo di resoconto, lo so. Forse sono stato condizionato dal tono violento di queste pagine. Magari ci ritornerò. Per il momento, di fronte al bivio che l’autore poneva all’inizio, tra conversione e rifiuto, la mia scelta non può che essere il rifiuto.
(2-fine)
Un eremita, Introduzione alla orazione mistica, Effatà Editrice 2008.