(qui la prima parte, qui la seconda, qui la terza)
Il culmine della ricostruzione di Jean Leclercq del «pensiero monastico» sul matrimonio è rappresentato, né poteva essere diversamente, dalle opere di Ugo e Riccardo di San Vittore e dai Sermoni sul Cantico dei Cantici di Bernardo di Chiaravalle. È con loro infatti (che tra l’altro furono gli autori best seller del XII secolo), soprattutto con l’abate di Clairvaux, che l’allegoria amorosa entra nel cuore del discorso teologico. E l’attenzione in questo caso è rivolta al realismo del linguaggio: quando usano l’amore e tutto il suo vocabolario per alludere ai misteri della fede e spiegarli, quando le descrizioni entrano nei particolari di un rapporto di coppia, questi monaci sanno di cosa stanno parlando? Quale tipo di amore sottintendono? Qual è la realtà sulla quale si basa la loro imponente macchina allegorica?
Leclercq non ha dubbi in merito: «La realtà che serve da punto di riferimento a tutta la metafora è [dunque] l’amore carnale che esiste tra persone sposate». Una dimensione «matrimoniale» che, per stare al caso cruciale dei Sermoni, è assente dal Cantico, ma viene aggiunta da Bernardo «conformemente alla cultura e alle strutture sociali dell’epoca», e in considerazione del fatto che un gran numero di monaci (coloro ai quali Bernardo in primis si rivolgeva) e di monache aveva alle spalle una «giovinezza cavalleresca» e quindi era sensibile alle forme dell’«amore umano» o poteva addirittura averne avuto esperienza («Tuttavia, anche riguardo a coloro che vestono da religiosi ed hanno professato la religione, sentiamo che taluni ricordano e si vantano con estrema impudenza delle loro passate malefatte che hanno compiuto, per esempio, dimostrandosi forti in conflitti armati, ovvero arguti in gare letterarie, o altre cose, stimabili secondo la vanità del mondo» Sermoni XVI, 9). Secondo alcuni, su questo terreno Bernardo e i trovatori camminano insieme e, al di là del fatto che il discorso dell’abate sia una specie di «trampolino», il suo «linguaggio è più realista di quello dei trovatori» (J. Deroy). Un realismo su cui si basa la forza dell’argomentazione successiva.
Uno degli esempi principali è il bacio (quel bacio che apre il Cantico: «Mi baci con i baci della sua bocca!» e sul quale Bernardo si diffonde per otto, ispiratissimi sermoni), perché se ci si ferma un passo prima che Bernardo parta per le sue ardite ramificazioni teologiche, si può cogliere un contenuto di vita vissuta che tutti possiamo riconoscere senza dubbi (è significativo, annota Leclercq, che Bernardo usi in questi casi il «noi»: «questo modo di parlare al plurale ci permette di dedurre che si tratta di un’esperienza comune, nota a tutti»): «Non usiamo forse noi dire: “Baciami”, ovvero: “Dammi un bacio”?» (IV, 1); «Colei che chiede, invece, il bacio, ama» (VII, 2); «Da pari a pari si unisce, da pari a pari gode l’amplesso, non mendica il bacio da un luogo inferiore, ma da pari altezza accosta la bocca alla bocca» (VIII, 8). E poi gli abbracci, gli «amplessi», ancora la «congiunzione delle labbra», l’indiscreta commixtio, l’infuso gaudiorum, lo stesso «letto» (citato fino all’ultimo sermone) e l’unione: «Tra di essi infatti tutte le cose sono comuni, non avendo nulla di proprio, nulla a sé estraneo. Un’unica eredità per entrambi, un’unica mensa, unica casa, unico letto, una sola carne» (VII, 2). Non sono che pochi esempi.
Insomma, argomenta Leclercq, Bernardo, come se il valore della potente allegoria che sta per sviluppare dipendesse dalla chiarezza del termine di confronto, parla di quello, id: «Pensa dunque che lo Sposo dica così: “Non temere, amica mia, quasi che questi lavori delle vigne ai quali ti esortiamo impediscano o interrompano l’esercizio dell’amore. Vi sarà qualche modo per cui poter realizzare quello che parimenti desideriamo. Ecco, le vigne hanno delle macerie, e queste degli angoli bene adatti per noi”» (LXI, 2). Id quod pariter optamus: «Cosa significa questo id il cui senso non viene precisato? Ognuno lo sa. Quale realismo unito a quale delicatezza!» La coppia, l’unione, quello: «Come si sarebbe potuto parlarne con tanta chiarezza e vedere in esso il simbolo dei misteri più alti, se non lo si fosse considerato come una grande e bella realtà?»
(4-fine)
Jean Leclercq, I monaci e il matrimonio. Un’indagine sul XII secolo, SEI 1984.
Ci tengo ad annotare a margine che le citazioni di Leclercq mi sembrano scelte molto «oculatamente», a volte pure troppo. Uno dei passi di Bernardo sottolineati, per esempio, è tratto dal Sermone XIV e Leclercq lo riporta così: «E di nuovo [Bernardo] ripete: “Intanto lo Sposo e la sposa stiano dentro soli, godano dei mutui intimi amplessi”. In queste frasi ogni parola è concreta». L’abate, però, continua così: «senza alcuno strepito di desideri carnali, senza essere turbati dal tumulto di corporei fantasmi».
Due appunti: in altro contesto, ricordo anch’io di aver notato che Leclercq citava la Regola in modo tendenzioso. Scegliendo cioè un gruppo di parole che nel testo continuavano in modo da smentire la tesi che stava sostenendo, ma se mutilate sembravano avvallarla (purtroppo non ricordo il tema e il passo, credo si trattasse dell’abito monastico): lascia un po’ di amaro questo metodo.
Per quanto riguarda il matrimonio è l’unico “sacramento” ad esistere prima del peccato originale: non si tratta dunque di un rimedio alla concupiscenza (come diceva tanta teologia morale dei tempi andati), ma di una forma di vita ordinata al bene in sé, alla quale i monaci rinunciano solo in vista di un bene maggiore (la paternità e maternità spirituale, il dono totale di sé a Cristo). Non stupisce in questo contesto l’allusione concreta e persino la grande stima per l’aspetto carnale dell’amore coniugale. Come tutte le verità, ha avuto momenti in cui se ne è messo in luce maggiormente un aspetto piuttosto che un altro (l’aspetto riproduttivo piuttosto che quello unitivo), ma ciò non toglie la realtà intera.