Sed veniale (i monaci e il matrimonio, pt. 3)

(la prima parte è qui, la seconda qui)

Dopo l’aspetto consensuale del matrimonio, viene ricordato che

2. Il diritto dei coniugi all’unione carnale è un debito che «ognuno dei due ha liberamente contratto verso l’altro». Un debito la cui restituzione, stando a san Paolo, è occasione di merito, tanto che

3. Il piacere che accompagna questo dovere è normale e legittimo («et quia licitum est, malum non est»), è oggetto di indulgenza (venia) e, in sostanza, non è peccato. Come scrive Alano di Lilla, impacciato sì, ma non ambiguo: «Affermiamo anche che l’unione coniugale non può essere consumata sine carnali coitu, e che non sempre ciò è peccato; anzi grazie al sacramento dell’unione tale carnale commercium o non è peccato grave o non è peccato del tutto». E persino l’implacabile Bernardo concede: «Non è certo frutto di mediocre virtù astenersi da una donna; ma se un uomo si unisce a sua moglie, non vi è assolutamente nessun peccato in questo». La scoperta più interessante, forse, è che la finalità della procreazione non è data per scontata. Insomma, ci sono cose ben più gravi che prendere piacere l’un l’altro, che diamine!, basta pensare all’omicidio.

È lo stesso Ecberto che diceva che gli esseri umani non sono fatti di ferro ad avventurarsi in queste regioni. Sì, qualcosa di peccaminoso c’è (aliquid peccati), ma è una traccia leggera ed «è giustificata dal bene che risulta dal matrimonio». Non solo. «L’unione coniugale compiuta senza l’intenzione di generare figli, ma per l’esclusiva ricerca del piacere [sed tantum causa explendae libidinis], è in sé un peccato, sed veniale: è scusato dagli altri beni del matrimonio, ed è oggetto di quell’indulgenza che è un permesso.» L’importante è che

4. Il piacere «che accompagna l’attività amorosa» sia perseguito con moderazione. Come tutti gli altri del resto.

La strada che queste «nuove prospettive» percorrono per arrivare effettivamente alla «gente», secondo Leclercq, è quella dei manuali per confessori (la confessione comincia infatti a diffondersi proprio alla fine del XII secolo), diffusi in centinaia e centinaia di manoscritti e più accessibili dei trattati dai quali pure traggono la materia. È un percorso che va considerato a doppio senso tuttavia, poiché, come si diceva, è la pratica ad aver portato in primo piano nuovi problemi di coscienza, suscitando «soluzioni di principio che, a loro volta, sono oggetto di elaborazioni, di spiegazioni nella letteratura spirituale, di proiezioni idealizzate nei modelli agiografici, e si riflettono nella letteratura destinata a far penetrare tutte queste conquiste nell’insieme del popolo». Un po’ come se le coppie sposate avessero detto: insomma, noi vogliamo stare bene insieme senza finire all’inferno, diteci un po’ come stanno le cose.

«E a quest’opera», sottolinea Leclercq, «contribuiscono i rappresentanti del pensiero monastico», che traggono gli ingredienti di base del loro discorso dalla vita degli esseri umani, mostrando, in poche parole, di conoscerla o di averla osservata, di averci riflettuto e di non svalutarla. Come dimostrano, per fare un solo esempio prima di passare ai sommi modelli della scuola di San Vittore e soprattutto di Bernardo, queste scenette tratte da un commento al Cantico dei Cantici del cisterciense Hélinand di Froidmont. Il quale ci mostra litigi, tensioni, schermaglie di coppia («Quando lui la vuole abbracciare, lei comincia a prenderlo a pugni in faccia [dat ei cum pugno in rostrum]; ma una volta a letto, lo abbraccia»), una donna che si lamenta che il suo sposo non la ami («Conquesta est de marito suo, quod eam non diligeret») e una moglie gelosa (sponsa zelotypa) che si tormenta («Quando suo marito è assente, lei non si dà pace sino a quando non è rientrato per poterlo abbracciare») e che – citata persino in volgare – si duole d’amore: «Quant vendra li dulz, li franc [lo schietto] qui mis cuers desir tant?»

(3-continua)

Jean Leclercq, I monaci e il matrimonio. Un’indagine sul XII secolo, SEI 1984.

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Una risposta a “Sed veniale (i monaci e il matrimonio, pt. 3)

  1. lo chiamavano “oscuro” medioevo…

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